Le parole sono finestre oppure muri. Corsi, ricorsi storici quotidiani antipedagogici.

Non ho mai visto un bambino stupido; ho visto un bambino che talvolta ha fatto cose che non ho compreso o cose in modi che non avevo previsto …Prima di chiamarlo stupido pensateci!…Le parole sono finestre oppure muri…”

(Ruth Bebermeyer)

errori di comunicazioneCari figli, comunicare deriva dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune, far partecipe. Nel suo primario significato, sono gli atti che comportano la distribuzione di informazioni, ma distorta la comunicazione, tutto va a ramengo. Le parole sono importanti, a volte sono più pesanti quando sono “pronunciate” con il silenzio, ma possono anche “essere ali”, le ali della vostra fantasia, per essere qui o in qualsiasi dove, fino ad arrivare addirittura fin dentro a voi stessi!

Sono queste le parole che mi piacciono di più. Ecco perché è così importante saperle sceglierle per ridurre il più possibile la distanza tra ciò che siamo, ciò che pensiamo, ciò che vogliamo dire o che, per assurdo, vorremmo essere. È una questione di relazione tra distanze. Cercando di riscattare la sfiducia, il senso di incomunicabilità, l’angoscia e la frustrazione di ogni tentazione ermetica (di Quasimodo e Montale ce ne sono già stati uno per sorte!), vorrei vi concentraste invece sulla vostra personale sensibilità, capacità e fiducia nel fatto che non tutto è perduto. Siete nel pieno del significato, da cui poter attingere ciò che più vi rappresenta, individualmente. È un vostro diritto e un vostro dovere….Ma poi, accidenti, mentre elaboro quanto sopra, mi sfugge quella pesantissima esclamazione che pesa come una condanna, così irrimediabilmente categorica, distruttiva, così fottutamente falsa, ma fottutamente credibile, di chi predica bene e razzola male.

– Hai di nuovo versato il latte! Sei proprio una stupida! Sì, ho detto proprio così, “stupida”, e ovviamente me ne pento. Me la sento esplodere addosso con tutta la sua forza devastante. Non finisco neanche quasi di emettere l’ultima vocale, che già me la sarei voluta rimangiare, con il sapore amaro delle tre sillabe “stu-pi-da”, ma ormai è sfuggita al controllo, innescando il suo effetto violento, a catena, e già penso al ‘ground zero’ relazionale su cui dovrò ricostruire la tua fiducia. Ed è silenzio. No, silenzio è un ossimoro….Dicono che non si debba piangere sul latte versato, eppure si può piangere, eccome. I tuoi occhioni neri, sbarrati e fissi su di me, sono lo specchio della tua profonda delusione e in essi si rispecchia tutta la mia inadeguatezza.

Provo a rimediare alla tua frustrazione (io alla mia ci penserò più tardi), al tuo senso di smarrimento, alla tua già precaria autostima e vorrei essere un Barbapapà per trasformarmi in uno struzzo e mettere la testa sotto terra, dalla vergogna, ma il mio posto è qui, a raccogliere i cocci dei miei errori sulla vostra pelle. Poco conta che fossi stanca e particolarmente presa dalle molte faccende domestiche, comunque, ecco dimostrato quanto detto poco sopra! Sì, le parole possono diventare muri ed è quel muro che, adesso, dovrò tentare di scalare, perché la porta è chiusa con tante mandate, quante quelle pesanti sillabe. Adesso ho a che fare con ciò che io ho detto, ciò che ha causato, ciò che tu provi, ciò che io provo e che provo a fare per rimediare alla ferita che si è aperta, pur nella condivisione di un dolore (il che, comunque, non è di gran conforto e non diminuisce il dolore di chi viene deluso) e di cui rimarrà la cicatrice, a ricordo dell’errore e del tentativo di ricucire l’assoluto proposito futuro per cui ciò non debba più accadere.

Eppure so benissimo che questa è cattiva comunicazione, comunicazione inefficace, anzi, comunicazione regresso; mettere un accento negativo sulla persona anziché sul comportamento. Lo so, ma ci sono ricascata. Anziché riferirmi al comportamento scorretto, ho espresso un giudizio negativo sulla tua persona. Sono stata erroneamente normativa rivolgendoti quel ‘tu’ accusatorio, quando mi sarebbe bastato dirti: “Sei una persona intelligente, ma quello che hai fatto questa mattina non era molto intelligente”. Basta. Stop. E nulla più. “Posso sopportare che tu mi dica quello che ho fatto e quello che non ho fatto e posso sopportare le tue interpretazioni, ma ti prego non confondere le due cose”, scrive Marshall Rosenberg. Avrei dovuto preferire una comunicazione responsabile; evitare il tu-giudizio e preferire l’ io-responsabile, intimamente in relazione al sentimento provato; cosa caso mai ha provocato il tuo comportamento agito, piuttosto che cedere alla critica del tuo comportamento, assumendomi la responsabilità di come mi sento io e lasciando a te la volontà (e responsabilità) di cambiamento. Invece ho confuso proprio quello che hai fatto con la mia reazione. E ho giudicato, etichettato, umiliato, classificato e tuttavia confuso osservazione, persona, azione, valutazione e i miei sentimenti. Un guazzabuglio di negatività, solo perché tu hai agito in disarmonia con le mie aspettative.

Ma aspettative di cosa? Di perfezione, di un modello di bambino ideale, di soprammobile, ologramma di una figura mitologica? Perché, tra l’altro, l’accaduto rientra nel presupposto assurdo per cui il bambino debba essere rimproverato, mentre l’adulto no; in virtù della folle dicotomia bambino-errore (che dovrebbe essere accettabile per ovvie ragioni e non lo è), che crea reazione inadeguata, rispetto alla dicotomia adulto-errore, meno accettabile, ma largamente accettata. Come direbbe il caro amico e pedagogista Maurizio Parodi, “se lo stesso errore lo avesse compiuto un adulto, non saremmo stati così perentori nell’enunciato, ma avremmo minimizzato, saremmo stati comprensivi”. Perché dunque riservare questo mal-trattamento ai bambini che hanno più diritto alla fase sperimentazione-errore?”.

Sono schemi che necessitano di molta pratica, assidua applicazione e molta empatia, ma prima o poi si imparano. Tuttavia, la difficoltà sta proprio nell’allenamento, nella concentrazione e io non ero abbastanza concentrata su di te. Evviva la comunicazione non violenta e la pace nel mondo…. Ma non è così facile! Se per strutturare uno stile di comunicazione efficace sono fondamentali alcune capacità, tra cui riconoscere le proprie emozioni, evitando che queste prendano il sopravvento, ebbene io ho agito al contrario (d’altro canto, se ti avessi, invece, chiesto di andare a prendermi il latte, non mi avresti neanche sentito, se non alla centesima volta, quella che sfonda il muro del suono); qui, invece, è bastata una sola volta per sfondare le tue certezze e sentire Daniel Goleman annaspare giù per la tazza del WC, con la sua intelligenza emotiva! Che fare? Farò mea culpa da una parte, e tesoro dell’errore, dall’altra. Se “l’esperienza non è ciò che accade a un uomo, ma è ciò che l’uomo fa con ciò che gli accade” (Huxley docet) con ciò non mi giustifico, ma mi perdono un poco e mi concedo nuovi buoni propositi per il prossimo futuro; perché anche riconoscere l’errore e saperlo gestire, invece di soccombervi con autocommiserazione e inerzia, è fondamentale. E voglio evitare di ricascare in entrambe le tipologie d’errore, di comunicazione violenta, distruttiva e di autocommiserazione improduttiva. Avanti tutta. E’ l’ora delle coccole terapeutiche.

Se chiudete la porta a tutti gli errori,

anche la verità ne rimarrà fuori.

(Rabindranath Tagore)

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