Un allattamento difficile

161049_lactation1.jpgLuna è nata in un periodo di grande caldo.

La prima figlia. Il desiderio più grande al mondo.

La paura di non essere capace. La costanza nei tentativi.

L’ho attaccata subito al seno, in sala parto, senza pensare troppo a come comportarmi.

Io e lei, due koala, lei molto più di me. Una bambina aliena, occhi lunghi e blu, come non avevo mai visto.  Le ho detto subito: “Ma da dove sei uscita, tu?” e l’ho accostata al mio seno.

Lei mi ha annusato, come fanno gli animali, poi mi ha leccato. Giuro, mi ha leccato.  Ho riso.

Avvolte in asciugamani verdi caldi, nude pelle contro pelle, ho sorriso ancora, perché avevo una bambina tra le braccia, che mi stava leccando sul serio. E non mi pareva vero.

Un sogno che inizia.

I giorni all’ospedale sono stati sereni. Lei si attaccava molto spesso, ma purtroppo male. Mi appiattiva i capezzoli e me li segmentava con forza. L’ostetrica spesso veniva a controllare la posizione, la staccava e la riattaccava, ma dopo pochi secondi lei tornava a prendermi solo la punta. Nonostante ciò cresceva. Tornai a casa persino un giorno prima.

Pensavo a un allattamento tenero, un guancia contro tetta, un tepore lieve e morbido. Questa era l’idea che mi ero fatta sull’allattamento, null’altro. Non dolore, non problemi. Solo un ciucciare solido e lunghi sonni ristoratori.

Non è stato così. Luna ha deciso di non collaborare (testarda fin dall’inizio).

Si attaccava solo in punta e succhiava con poca forza. Io avevo il seno che scoppiava, mi era diventato durissimo, enorme. Avevo i brividi di febbre di notte. Perdevo latte di continuo, ovunque. Bagnavo i materassi  seppur coperti da lenzuola e asciugamani.

A nulla valeva infilare piano il ditino in bocca per staccare la presa.

In pochi giorni mi tagliò un capezzolo, lacerandolo in profondità.

Il dolore era forte fin dall’inizio, ma quella ferita acuminava ogni possibilità di relax, era una spada che sbatteva nel petto e non mi dava pace.  Decisi di comprare i paracapezzoli, evitando in ogni modo di comprare creme o spray antibiotici (che mi venivano caldeggiati da amiche che ci erano passate prima di me).

Io volevo solo il bene di Luna e non volevo assolutamente correre il rischio di farle assumere medicinali attraverso la mia pelle. Comprai diversi tipi di crema emolliente. La vitamina E. La lanolina pura.

Massaggiavo sopra il capezzolo ferito e dolorante gocce di mio latte fino a farlo asciugare (così come viene suggerito ovunque per cicatrizzare la ferita) ma le poppate erano molto ravvicinate e non riuscivo a dare tregua al seno per ricostituire una barriera.

I paracapezzoli, poi, firmarono un po’ la mia condanna. Per poter succhiare, Luna aspirava il capezzolo, non lo massaggiava con la lingua, quindi la pelle era sempre stimolata da uno strappo. Uno strappo atroce.

Sanguinavo fino a vedere il buio totale. E lei sgomitava, urlava, strepitava con ferocia. Voleva il mio latte, lo voleva davvero, e io non riuscivo a darle il necessario, senza piangere dal dolore.

Non volli arrendermi. Mi spremevo il latte da sola, per lunghi giorni. Non volevo che diminuisse perché sentivo di averne molto, non volevo che queste poppate interrotte, questi pianti che culminavano in strazio e poi nel sonno, pregiudicassero il mio allattamento.

Una ragazza prese a cuore la mia faccenda e mi regalò un tiralatte, per dare tregua al seno ferito.

Nel frattempo tempestavo di mail una consulente de La Leche League. Ero distrutta dalla sofferenza, però non volevo rinunciare.

Luna non cresceva secondo i percentili (un’infinita assurdità e una vergogna, questi percentili) e la pediatra di allora insisteva perché io cominciassi molto presto a darle la pappa lattea al posto di una poppata o integrassi con un pasto di latte artificiale.

Io l’ho odiata quella pediatra che non mi capiva.

Avevo l’appoggio della consulente, che mi stava vicina con tenerezza, con dedizione, che mi coccolava, mi comprendeva. Mi invitava a spiegarle le posizioni in cui mi mettevo ad allattare Luna, ne inventava nuove, io sorridevo e pensavo che forse in quella maniera ce l’avrei fatta.

Ma Luna non ha mai voluto collaborare.

Per sei mesi ho allattato con i paracapezzoli, e da un seno ho sempre tirato il latte, perché da quel seno lei non ne voleva sapere di attaccarsi. Un rifiuto totale, incondizionato.

La sera, d’estate, quando il caldo era insopportabile, e le urla e il dolore arrivavano lenti a conficcarsi nel cervello, pensavo di non aver mai provato un dolore così forte, neppure durante il parto.

Perché era una cosa di testa, quella. Il sentirsi quasi rifiutata. Il desiderare così tanto una cosa e non poterla avere chiara, semplice, tranquilla.

Vedevo altre mamme che allattavano senza problemi, con bambini pasciuti e rigogliosi. Il rivolo che cola dalla bocca, la faccia compiaciuta, le guance tonde. E Luna che invece rimaneva sempre un po’ indietro nel peso, nell’altezza e succhiava lo stesso il mio latte tuffando gli occhi nei miei.

Io avrei dato qualsiasi cosa per vederla prendere il mio latte perfettamente, con la presa giusta, le labbra corrette, e glu glu glu, il latte fluire nel suo corpo. L’ho sognato per mesi. Ho fatto di tutto per farlo accadere.

Mi attaccavo ai consigli de LLL, bevevo ogni articolo, compravo riviste, provavo posizioni. Le ho provate tutte.

Ho dormito tanto, i primi mesi. Insieme a Luna. Nude, sotto le coperte, pelle contro pelle. Sapevo che le avrebbe fatto bene, la sentivo acquattarsi tutta contro di me, un tigrotto indifeso che mi annusava con quelle fessure chiuse, la faccia un po’ rugosa e la boccuccia piccola. Piccolissime labbra che trattenevano appena il mio seno prorompente.

Me la tenevo contro il petto, sdraiata su di me, a miscelare gli odori.

La allattavo ovunque, anche al supermercato, senza problemi, senza vergogna. Ritagliavo il mio spazio, i miei paracapezzoli in borsetta e il suo grido imperante, che si placava quando mi succhiava.

La cosa più bella del mondo.

A sette mesi, per magia, si è attaccata anche al seno sinistro, senza paracapezzoli. Una gioia che non credevo possibile provare. Un tuffo al cuore, l’immagine è vivida ancora nella mente: il seno che si svuota lentamente, la bocca che compie il suo dovere, finalmente, occhi blu immersi nei miei e una commozione strappacuore.

Ha voluto concedermi ancora tre mesi così, scemando piano l’interesse verso il seno materno.

Preferiva il mio latte (che tiravo e ho tirato per dieci mesi) nel biberon, non aveva particolare propensione per accoccolarsi nel mio grembo, le piaceva la libertà di tenersi il biberon, di scolarselo serena nelle braccia di suo padre, anche.

Non faceva preferenze, non è mai stata una gran mammona.

(E ora, tra l’altro, è una bimba estremamente indipendente).

Ho lottato per salvaguardare gli ultimi giorni, li volevo far proseguire ma attaccarla al seno sembrava quasi una violenza. Ho vissuto il distacco in maniera dolorosa. Non ero preparata. Avrei voluto allattarla oltre l’anno, oltre i due.

È stato un allattamento difficile. Un periodo della mia vita confuso, che ricordo con grandi macchie di dolore ma con immensa tenerezza.

L’allattamento dà sensazioni inspiegabili. Allattare è come vivere due volte, è come essere forti il doppio, è come essere invincibili.

Senti il latte che scende nella bocca del tuo bambino e quasi ti sembra di acquisire potenza, perché sai che stai sfamando la vita che hai creato, la stai facendo crescere, lui si ciba di te, in qualche modo.

Conservo foto di quel periodo per riguardarmele e cadere nella tenerezza obbligata che provi quando vedi degli occhi splendidi che ti guardano a dieci centimetri dal viso, immersi nella pelle morbida della tua scollatura. Ricordo ancora il profumo di latte sui vestiti, le maglie impregnate di odore materno, che annusavo con fare animale, che le mettevo vicino, nel letto.

L’amore si misura molto anche nell’allattamento. Daresti la vita per tuo figlio e io avrei dato qualsiasi cosa di me, anche una menomazione. La mia ferita ci ha impiegato mesi a guarire, ho dovuto poi cedere a un antibiotico, quando ormai stava per terminare l’allattamento, perché non si riusciva a far chiudere il taglio.

Eppure, quando guardo quella piccola cicatrice bianca che mi è rimasta sulla pelle rosa, io rivedo la bocca di Luna, gli occhi di Luna, il tepore e il profumo, la dolcezza e l’amore immenso. Non vedo il dolore.

Vedo la vita che mi è cresciuta sotto gli occhi.

N.B. Non voglio assolutamente far sentire a disagio le mamme che non hanno allattato, per scelta o per qualche problema. È solo il mio punto di vista, la mia esperienza.

Per poter dire, anche a chi sta vivendo questi problemi, che insistere vale la pena.

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