Cronache dal Kurdistan e dintorni

penelope.jpgParto un giovedì sera, con una piccola valigia e un’emicrania con nausea che non mi fa nemmeno parlare. Passerò una settimana nel Kurdistan iracheno.

In realtà è Iraq, ma a mia madre ho preferito dire che vado in Kurdistan, confidando nella sua ignoranza in geografia così non si preoccupa per noi.
Più che altro lascio la mia piccolina, 12 mesi e due dentini, a casa con papà. Loro due soli per la prima volta, noi due separate per la prima lunga volta.
Sarà per questo che mi sento male.

Primo giorno
Irbil si trova su una pianura verdeggiante a nord, all’orizzonte le montagne; mi ricorda un po’ casa mia, le Prealpi, anche se qui fa un caldo torrido che intorpidisce, qua e là spunta qualche moschea e le bandiere curde ostentano il loro sole giallo in ogni angolo.

Riunione con i colleghi davanti a un caffè turco. Mi accorgo di avere la maglietta bagnata. Eh già, questo è il latte di cui mi dovrò liberare da oggi in poi, perché sono una ragazza coraggiosa, ma non così tanto da riuscire a convincere mia figlia che vorrei smettere di allattarla, e approfitto ignobilmente di questo distacco.
Incontro il personale della mia organizzazione, sono curdi e me lo ripetono mille volte in mille modi diversi; parlano curdo, non arabo; hanno il proprio presidente e il proprio parlamento, e allo stesso tempo sono in territorio iracheno. È una concessione sostenuta dalla comunità internazionale dopo che Saddam Hussein aveva fatto le sue stragi qui al nord; per questo la guerra qui non è arrivata e siamo al sicuro.

Secondo giorno
Mi sveglio con un messaggio di E.: la piccola ha cenato con il pollo e le verdure, mangiato pure un biscotto, ha dormito e stamattina ha fatto tanta cacca . Sono felice, parto carica per fare questi quattro giorni di corso a un gruppo di volontari iracheni che vivono e lavorano a Baghdad e nel sud dell’Iraq.

Loro sono arrivati dopo un lungo e ancora pericoloso viaggio in macchina, passando per innumerevoli check-point. Parlano arabo, hanno studiato a Baghdad, hanno passato la giovinezza sotto il regime di Saddam, hanno vissuto la guerra e adesso cercano di aiutare i loro concittadini più sfortunati. Da due anni distribuiscono carrozzine alle vittime della guerra, li cercano nelle loro case, cercano di capire dove li possono mandare a fare una protesi o a fare fisioterapia anche se i centri ortopedici e di riabilitazione si contano sulle dita e funzionano solo grazie agli aiuti della Croce Rossa Internazionale.
L’organizzazione francese per cui lavoro li finanzia e dà supporto tecnico. Io sarei il supporto tecnico.

Oggi dovrei spiegargli cos’è la disabilità
Lo sapete che secondo l’OMS la disabilità non è solo una gamba amputata ma anche l’assenza di una rampa se ti muovi con una carrozzina o il pregiudizio della gente che ti isola perché pensa che non servi a niente?
Mi seguono interessati, annuiscono, fanno domande. Gli spiego che loro dovrebbero anche convincere i genitori dei bambini disabili a mandarli a scuola, perché ne hanno il diritto, e se necessario far costruire una rampa; mi dicono che non tutte le scuole sono aperte, ma che sicuramente proveranno parlare di questa cosa.

La giornata è intensa e prima di salutarci qualcuno mi mostra le foto dei figli e dei nipotini sui cellulari. Io vorrei mostrare la foto di P. ma un po’ mi vergogno perché il computer è collegato al proiettore e la vedrebbero tutti in formato gigante.
No, neanche io la voglio vedere. Mi manca.

Terzo giorno
Oggi parliamo dei diversi tipi di disabilità: quando è utile usare un bastone o una carrozzina, quando è possibile fare una protesi, quando è indispensabile fare fisioterapia.
Uno dei partecipanti mi dà la sua chiavetta per mostrarmi le foto di alcune persone che ha incontrato a casa. Ci sono uomini, donne, giovani, vecchi e tanti bambini con paralisi cerebrale.
Ce ne sono sempre troppi quando non ci sono ostetriche disponibili e dottori che possano fare un cesareo.

Questo è quello che è successo durante questi anni di guerra: tutti i professionisti sono fuggiti per salvare la pelle. Sono rimasti in pochissimi, e negli ospedali ormai fatiscenti manca tutto. Potremmo distribuire più carrozzine, ma è necessario anche spiegare come si usano, come evitare le piaghe, come salire i gradini… Troppe cose da fare, e questi quattro giorni non basteranno a far capire quanto sia importante non lasciare in un angolino questi bambini ma tenerli con sé, amarli e dedicargli tutto il tempo possibile per stimolarne lo sviluppo.

Quarto giorno
Ormai sono sfinita, devo alzarmi mezz’ora prima ogni mattina per fare la mia doccia calda e spremere il latte che continua ad uscire a fiotti. Mi sembra di farmi violenza, mi sembra impossibile che sia passato un anno di io e lei insieme e che tra pochi giorni sarà diverso, ma questa fine l’ho desiderata per molti motivi ed eccomi qua, a fare una doccia bollente in una casa in cui già ci saranno 35°.
Posso piangere.

La sera andiamo a fare un giro nel centro storico, c’è una cittadella arroccata su un monticciolo, infuocata dalla luce del tramonto; gli uomini anziani portano un tutone di cotone con una cintura di tela in vita e si coprono il capo con un piccolo turbante, è il costume tradizionale curdo. Le donne hanno lunghi capelli neri, sopracciglia folte, ampi gonnelloni scuri su corpi rotondi e non si coprono come nel resto del paese.

Compro un’anguria e delle ciliegie grosse e succose, poi della frutta secca; vorrei prendere un paio di scarpine locali in tela per P. ma sono troppo grandi. Arriva il solito messaggino serale: pare che P. abbia capito come uscire dal seggiolino della macchina, panico.
Io veramente sorrido, fiera dei suoi progressi, mi pare che siano passati mesi dall’ultima volta che l’ho vista, e nel frattempo guarda un po’ che cambiamenti… So di essere un po’ scema ma rido lo stesso pensando al suo papà.

Quinto giorno
Ultimo giorno di corso, siamo stanchi ma si è creata una bella complicità. Questi uomini sono contemporaneamente seri e con un gran senso dell’umorismo.
Ho scoperto dopo due giorni che dire "shhhh!" per avere silenzio è molto offensivo per loro, perché qui si usa solo per le bestie, ma sono stati pazienti con me.
Proviamo a usare le stampelle, i tripodi, proviamo a salire e scendere le scale con le carrozzine, a posizionare i finti pazienti nel letto con i cuscini. Io cerco di toccarli il meno possibile, anche questo contatto fisico è inusuale per loro.

È l’ora delle foto ricordo, sorridiamo tutti ma sappiamo quanto il loro lavoro sia difficile e carico di frustrazione. Vorrebbero poter aiutare le famiglie che incontrano ma spesso non sanno come fare; consegnare un ausilio è importante ma non basta, bisognerebbe avere psicologi, assistenti sociali, leggi che favoriscano la partecipazione delle persone che vivono con disabilità.

Quanta tensione in queste famiglie che non solo devono convivere con i lutti e gli orrori visti, ma anche tentare di ricostruirsi un futuro con quello che è rimasto che a volte non sono nemmeno tutte e due le gambe?

Sono i numeri nascosti dei conflitti: i feriti che poi convivono con una disabilità permanente sono sempre almeno il triplo dei morti.
Vale per i soldati quanto per i civili.
Durante il viaggio di ritorno verso l’ufficio rifletto osservando i tanti cantieri in costruzione. I villaggi stile Desperate Housewives crescono come funghi, per i nuovi ricchi del nuovo Iraq qui al nord. Ma so che la maggior parte del paese corrisponde a quello che ho visto nelle foto digitali; e mi chiedo per quanto tempo la comunità internazionale darà il suo appoggio, ora che i soldati se ne sono andati, proprio pochi giorni fa.

Ultimo giorno
È stata una settimana emozionante, ho imparato tanto e spero di aver trasmesso alcune cose utili ma conto le ore che mi separano dal ritorno a casa.

Il viaggio in aereo è breve ma sembra non finire mai. Controllano babagli e passaporti all’infinito… Ma non vedete che sono solo una mamma impaziente di riabbracciare la sua piccola?

Apro la porta di casa alle sette di mattina, lei mi guarda e accenna un sorriso, vuole venire in braccio. Con il ditino tocca il mio viso, prima un occhio, dopo l’altro, la bocca, il naso.
Mi annusa per tre secondi e ridiamo felici.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.