Zambia, capitolo 2: il viaggio

Chinyingi-17Per tutto il viaggio rimasi in quello stato di tranquillità surreale.
Mi succede sempre così: quando un’emozione è così forte da rischiare di sopraffarmi divento un muro. Un muro lucido e razionale.
Mi accadde il giorno della mia laurea, e quando mi sposai.
Mi accadde in Congo, con mio grande stupore: vedevo situazioni terrificanti, ero circondata dal dolore e dalla miseria più nera, eppure vivevo tutto come se stessi guardando un film. Crollai più tardi, una settimana dopo il rientro, quando la sicurezza e la “normalità” mi lasciarono la libertà di metabolizzare quanto incamerato in quel mese.

Dopo un’ora circa di volo atterrammo a Roma. Con Mauri e Giova ridevamo e scherzavamo come al solito, forse un filo di più, in modo leggermente forzato.
Ci mangiammo l’ultima pizza italiana e c’imbarcammo sul volo della Ethiopian Airlines diretto Lusaka, via Addis Abeba.
Mentre, stranamente, ho un ricordo molto netto e vivido della breve tratta verso Roma, non ricordo assolutamente nulla del resto del viaggio, fino all’atterraggio. Non so se dormii, se lessi, se guardai un film, se chiacchierai. Non so cosa feci.
Forse, semplicemente, ero.
Ero tante cose.
Ero sicura di me, e convinta di ciò che stavo facendo.
Ero curiosa di ciò che avrei trovato e di come avrei reagito.
Ero una pazza furiosa. Cosa diavolo stavo facendo?
Ero soprattutto una giovane sposa che iniziava una nuova vita col suo uomo
, in bilico tra una vita conosciuta e familiare, e un mondo inesplorato. Niente di strano: per certi versi è un percorso che fanno tante ragazze, solo in modo diverso.
Forse guardavo Mauri. Sì, sicuramente lo guardavo, e mi sentivo rincuorata. Probabilmente gli prendevo la mano, ruvida e forte.
E poi forse guardavo Giova, un sedile più in là, assorto nei suoi pensieri. Era insieme a Lucia da pochi mesi, complice proprio quel viaggio in Congo durante il quale si erano innamorati. Chissà come la stava vivendo lui, la partenza.
Lui, per tanti versi, era più coraggioso di noi.

L’aereo stava scendendo di quota. Per la prima volta un moto di eccitazione pura mi attraversò dalla testa ai piedi, come una scossa elettrica.
Guardai in basso, e oltre le nuvole vidi un’enorme distesa d’erba verdissima: sapevamo che la stagione delle piogge era al termine e che la vegetazione sarebbe stata rigogliosa, ma niente avrebbe potuto prepararmi a uno smeraldo tanto brillante ed intenso. Poi iniziarono i campi coltivati, alcuni curiosamente rotondi. E poi, di netto, il luccichio dei tetti di lamiera dei sobborghi, poi i grattacieli della capitale, infine la pista d’atterraggio, e – toc! – terra.

D’un tratto, il panico. Ridendo, dissi di non voler scendere dall’aereo, che volevo rimanere su ancora un po’. Cercai di farlo suonare come uno scherzo, eppure era la verità. Quell’aereo era la sola cosa che mi agganciava a ciò che conoscevo: scesa di lì cosa mi aspettava?

Scendemmo dagli scalini, zaini e chitarre a spalle, e ci lasciammo inondare di sole e di calore.
Lusaka Airport. Welcome to Zambia!

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