Mamma non significa mammella

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Seduta davanti allo schermo del pc, mi rigiro i ricordi tra

le dita, li osservo come attraverso a un vetro, li vedo ovattati, innocui.
Rompere il vetro in caso di emergenza.
Eccomi dentro.
La storia del mio primo non-allattamento è presto detta: ho partorito un bimbo con una malformazione cardiaca ed è dovuto andare subito in terapia intensiva in un ospedale adiacente alla maternità. Subito significa che ho avuto quindici minuti per annusarlo, rendermi conto che fosse mio figlio, con la testa che ancora mi girava per la fatica delle spinte.
Poi, addio pancia, addio bimbo.
Attorno a me tanta euforia (“Com’è bello! Come sei stata brava!”) per nascondere l’angoscia, che se ne stava in un angolino, pronta a balzarmi addosso appena fossi rimasta sola.
Sono andata a dormire, nessuno si è attaccato al mio capezzolo.
Solo la mattina dopo, un tiralatte Isis recuperato presso la vicina farmacia, poche stille di colostro tirate fuori a fatica.

Il mio primo non-allattamento qui inizia e qui sembra finire.
Ma non è finito, perché per mesi continuo a piangere per non aver potuto allattare, per non aver saputo provvedere al sostentamento del mio bimbo, con la testa enorme che mi avevano fatto al corso preparto su quanto fosse essenziale l’allattamento materno.
A nulla valgono i mille “non poteva essere altrimenti, troppo distacco, troppo tempo”.
Passano nove mesi, sono di nuovo in dolce attesa.
Come rito scaramantico, eludo tutte le preparazioni che ho fatto durante la prima gravidanza: non preparo i capezzoli con il guanto di crine, niente creme, niente di niente.

Nasce.
Una piccola fotocopia del mio primogenito, proprio uguale, eppure così diverso.
Urla come un ossesso, lo sfratto non si dà alle tre di notte!
E lui, invece, resta con me. Resta attaccato al mio seno, respira sul mio cuore, notte e giorno.
Ciuccia vigoroso, sembra non averne mai abbastanza.
Si riaffaccia la paura di non bastare a mio figlio. Pretendo la doppia pesata dalle ostetriche, dopo la dimissione, con una scusa o con l’altra, torno in ospedale a giorni alterni, per pesare David. Che cala, cala, cala.
Il giorno in casa è un disastro, il mio grande che non ha praticamente più una mamma, la piccola idrovora attaccata 20 ore su 24 al seno.
Quello che non produco in latte, produco in lacrime.
Sono terrorizzata dal calare del sole, inizia un’altra lunga notte durante la quale solo io potrò provare a consolare il piccolo despota e non ci riuscirò.
Sono terrorizzata dal mio bimbo, da quel bimbo che spalanca la bocca e si attacca, e tira, tira fino a far sanguinare, un dolore che non si ferma al seno, mi prende lo stomaco e il ventre; mio marito mi porta il bimbo perché lo attacchi e io vorrei invece solo scappare, mi butto a faccia un giù nel letto e piango a singhiozzi forti.

Piango per niente, piango per tutto, perché so di non aver latte, perché non ho latte anche se l’ostetrica che viene a domicilio dice il contrario, anche se tutti mi dicono il contrario.
Dieci giorni, poi domenica mattina andiamo in ospedale a fare un’eco di controllo ai reni e chiedo per l’ennesima volta che un’ostetrica assista a una poppata e faccia la doppia pesata.
Trenta minuti. I miei ultimi trenta minuti da “nutrice” (o forse dovrei dire da “affamatrice”?).
Mettono David sulla bilancia. Ha perso dieci grammi.
Mi portano un oggetto che accolgo come deus ex machina: un biberon di latte artificiale.
Il mio bimbo è finalmente adorabile: mangia e dorme per i successivi tre giorni, per recuperare le forze spese a succhiare inutilmente, a piangere inutilmente, a chiedere delle tette inutili.

Se vi capitasse di non riuscire ad allattare, non vi canterò la solita canzone: che si cresce benone anche con il latte artificiale, che non è colpa vostra, che siete delle madri buone tanto quanto chi allatta.
Non perché non siano tutte cose vere, ma solo perché sono cose che in questo momento (e forse mai) non vi trovano d’accordo.
Mi limito a stringervi con il pensiero, ad assicurarvi che troverete il vostro ruolo di “mamma indispensabile” appena un pelo più avanti nel tempo, e a incrociare il vostro sguardo muto, come due sopravvissute alla stessa piccola, grande tragedia.

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