Appunti su Thomas Gordon e sul metodo PET

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Queste righe non vogliono essere un compendio dell’impianto pedagogico di uno dei più importanti protagonisti del panorama educativo contemporaneo. Troppo complesso spiegare da cosa nasca e come si sviluppi il metodo PET (Parent Effective Training) offertoci da Thomas Gordon senza fare riferimento alla scuola Rogersiana cui egli appartiene e alle innovazioni da questa proposte rispetto alle teorie pedagogiche presenti e riconosciute fino a questo momento storico.
Questi spunti, tuttavia, vogliono fornire un’occasione di riflessione su un tema sempre più attuale nella nostra società: l’ascolto di messaggi verbali e non, soprattutto quelli che ci arrivano dai nostri bambini. Gordon ci lascia interessanti spunti su come aprire meglio i nostri canali e nello stesso tempo educare i nostri figli alla comunicazione.

Parliamo dunque schematicamente dell’importanza della COMUNICAZIONE per Gordon, soprattutto nella pratica di quello che è l’elemento chiave di tutto il suo metodo: l’ascolto attivo.
Come in tutte le forme comunicative c’è un mittente, in questo caso il bambino, che comunica qualcosa in relazione a una situazione interna o esterna.
Il messaggio però deve passare attraverso una codifica linguistica, che spesso ne distorce l’originario input, creando una deviazione della comunicazione da parte del destinatario.
Se invece il mittente, prima che il messaggio venga definitivamente decodificato, ricevesse dal destinatario la richiesta di un feedback, la comunicazione potrebbe procedere seguendo la direttiva del mittente, reiterata e controllata dal destinatario o eventualmente essere corretta.

L’esempio più chiaro è espresso da Gordon stesso in Genitori Efficaci dove spiega come un ragazzino, nella comunicazione con la madre, avverta un bisogno: la fame.
Ma la codifica che il ragazzo dà al messaggio trasferendolo sul piano dialogico non è "Mamma ho fame", perché forse lui stesso non è in grado di comprendere subito il proprio bisogno, quindi dice "Quando si cena?".
Se la mamma, senza chiedere conferma, interpretasse quella fretta di cenare come un esigenza di avere più tempo per giocare dopo cena, o per finire di guardare la TV distorcerebbe il senso della comunicazione, involontariamente.
Una richiesta di feedback minimo, che comprenda il "hai fretta di andare a giocare con il videogioco dopocena?" basterebbe per dirottare la comunicazione su un piano diretto e forse il figlio risponderebbe "no, ho proprio fame".
Ma questo è un esempio limitativo, poiché Gordon va oltre, parlando dell’ascolto attivo.

L’ascolto attivo si differenzia da quello passivo per un procedimento di decodifica da parte del destinatario (che nell’ascolto passivo si serve per lo più della comunicazione non verbale per dimostrare la propria accettazione) e si basa su questo meccanismo di feedback del messaggio verbale.
Gordon riporta moltissimi esempi di come la pratica dell’ascolto attivo possa svilupparsi nell’ambito di una comunicazione genitore-figlio, rilevati sia nell’ambito dei suoi corsi (parents effective trainings) sia nell’ambito delle sue esperienze.
Lo scopo finale, quello più importante, è riuscire a portare il bambino, mediante la pratica dell’ascolto attivo, a trovare da sé la soluzione a ciò che espone nel messaggio verbale.

Questo dunque implica l’importanza della partecipazione emotiva del destinatario, in quanto esposto dal mittente.
Dire a un bimbo che si è scottato "ma no, non è niente", oppure "suvvia, ora ti passerà", svilisce lo spavento e il dolore provati dal bambino in quel momento.
Ancora più schematicamente, Gordon ci parla di requisiti necessari perché la pratica dell’ascolto attivo avvenga in maniera serena: disposizione a un’attenzione sincera, verso l’interlocutore, disponibilità di tempo per seguire gli sviluppi della comunicazione, consapevolezza della transitorietà degli stati d’animo (anche quelli negativi), volontà di aiutare l’interlocutore.

Tutto questo porta alle conseguenze: creare apertura reciproca, una maggiore intimità, prendere coscienza dei propri sentimenti, non aver paura delle emozioni negative, sviluppare autonomia nella soluzione dei problemi.
Gordon infatti è convinto che nell’ambito della comunicazione, qualora l’adulto si limiti a interpretare e a partecipare al messaggio con attenzione "empatica", al bambino non viene sottratta la responsabilità della ricerca di una soluzione al problema.
Identifica infatti 12 modi di agire che intralciano la comunicazione basata sull’ascolto attivo chiamandole "barriere": alcune di esse risultano intuitivamente chiare, altre meno esplicite.

  1. Ordinare, comandare, esigere.
  2. Avvisare, minacciare.
  3. Fare la predica, rimproverare
  4. Consigliare, dare soluzioni o suggerimenti
  5. Redarguire, ammonire, fare argomentazioni
  6. Giudicare, criticare, disapprovare, biasimare
  7. Definire, stereotipare, etichettare
  8. Interpretare, analizzare, diagnosticare
  9. Apprezzare, convenire, fare valutazioni positive
  10. Rassicurare, mostrare comprensione, consolare, sostenere
  11. Contestare, dubitare, mettere in dubbio, indagare.
  12. Eludere, distrarre, fare sarcasmo.

Mentre è chiaro perché "biasimare", o "contestare", siano atteggiamenti che un genitore non dovrebbe adottare per instaurare un rapporto comunicativo con il figlio, non è altrettanto intuitivo perché Gordon indichi "rassicurare" o "dare giudizi positivi" come una barriera alla comunicazione basata sull’ascolto attivo.
Più esplicativi sono gli esempi che riporta, basati sulle casistiche raccolte, dove un bambino che giudichi una sua espressione poco convincente o non adeguata, si sentirà poco compreso qualora il genitore lo qualifichi positivamente.

Nella stessa maniera, il fare considerazioni positive su di un singolo può avere effetti negativi sugli altri, o sulla totalità dei lavori dello stesso individuo (se questo è veramente un bel disegno, vuol dire che gli altri non lo erano!). L’approfondimento di queste Barriere porta Gordon a parlare più approfonditamente di strategie comunicative, basate sull’ascolto attivo, che aiutano genitori e insegnanti nella soluzione di conflitti. È infatti nell’analisi delle singole situazioni problematiche che Gordon trova i modelli per realizzare il suo metodo più efficace.

La risoluzione di un conflitto, sulla base della partecipazione empatica delle parti, avviene solo qualora si sia verificata l’appartenenza del problema.
Una bambino chiacchiera mentre la mamma telefona: è il piccolo che disturba, o la mamma che si sente disturbata? Sembrano piccoli accenti, ma posti sul punto giusto della conversazione hanno una grossa influenza sullo svolgimento della comunicazione.
È qui che Gordon parla dei messaggi di "responsabilità", ossia la sostituzione della prima persona singolare alla seconda: non "Tu mi disturbi" ma "Non riesco a sentire il telefono se parli a voce così alta". Un piccolo espediente, che tuttavia serve a spostare l’attenzione sulla vera entità del problema, oltre che il passo forse più importante per la sua risoluzione.

Leggendo i libri di Thomas Gordon si ha l’impressione che ci vengano rivelate delle piccole, grandi banalità che fino a questo momento ci sembravano ovvie. Il metodo Gordon non vuole essere mortificante per tutti noi, genitori imperfetti, che sicuramente siamo caduti più volte al giorno in una di quelle "barriere" che Gordon descrive, ma può sicuramente offrirci un’alternativa per migliorare i nostri stili comunicativi portandoci, per primi, ad avere un contatto con le nostre emozioni e le nostre reazioni come persone, spesso inscindibili dal nostro essere genitori.

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