Le anime nella sabbia. Le figlie di Juàrez: uno dei più raccapriccianti misteri criminali di tutti

juarezm.jpgEsiste una città nello stato messicano del Chihuahua con una popolazione di 1.142.354 persone. Questo posto ha un nome che ai più non dice molto: Ciudad Juárez o, semplicemente, Juárez.
La città è situata sulle rive del Río Grande, di fronte alla città texana di El Paso: i due centri danno origine a un’area binazionale di circa due milioni e mezzo di persone, che è la più grande superficie metropolitana sul confine fra Messico e Stati Uniti e un centro industriale in fortissimo sviluppo.
La maggior parte delle fabbriche di Juárez nasce grazie all’accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA) e sono parecchie le multinazionali che costruiscono in questi luoghi le loro fabbriche di assemblaggio.

La povertà in cui sono costrette a vivere migliaia di persone fà sì che si possa assumere manodopera a bassissimo costo; a Juàrez, dove sorgono più di mille di queste fabbriche, chiamate “maquiladoras”, ogni tre secondi viene prodotto un televisore e ogni sette un computer.

Nelle “maquiladoras” la manodopera è prevalentemente femminile: moltissime donne e ragazze cercano di fuggire alla miseria, guadagnando quel minimo che basta alla sopravvivenza delle proprie famiglie.
Le donne giungono a Juàrez da ogni parte del Messico e dell’America centrale, alla ricerca di un lavoro che assurdamente, per le più giovani, si concentra solo in turni di notte, con una paga media di 5 dollari al giorno per dieci ore di lavoro e ovviamente senza nessuna tutela per maternità e salute. Una paga che non permette loro un affitto in città e che le costringe a vivere nel degrado delle periferie, obbligandole a prendere autobus di linea per tratti lunghissimi e a percorrere a piedi, da sole, strade isolate e pericolose per tornare nelle proprie case.
Rischiando la vita.

A Ciudad Juárez essere donna e lavorare in una “maquiladora” è una condanna a morte.
La modalità degli omicidi è sempre la stessa: ragazze fra i 10 e i 35 anni vengono catturate di notte, mentre vanno a lavorare o escono dai turni nelle “maquilladoras” e poi stuprate, soffocate, uccise.
Dal 1993 ad oggi sono stati ritrovati centinaia di corpi di giovani donne torturate e violentate. Si parla di seicento, settecento, di migliaia di vittime.
Questo singolare genocidio sessista e classista ha un nome terribile: femminicidio.

Ogni settimana a Ciudad Juárez almeno una donna sparisce e di lei non si sa più nulla, a meno che i rapitori non decidano di far ritrovare il suo corpo senza vita.
Non sono mai stati chiariti i motivi delle uccisioni e della scomparsa di queste donne: vittime di serial killer, dei cartelli di narcotrafficanti o delle violenze domestiche o sessuali.
Tutte le prove riconducono a più assassini: una insana cultura dell’omicidio che diventa sempre più estrema quanto più viene occultata.

Di queste ragazze non si saprà mai nulla.
Molte vengono disseppellite dalla sabbia del deserto, dove le madri scavano di continuo sperando di trovarle nel completo disinteresse delle autorità: anime perse nella polvere, a cui nessuno darà giustizia.

Il cinema, grazie alla pellicola “Bordertown”, diretta da Gregory Nava e censurata in Messico, ha dato un grande contributo affinché il mondo sapesse cosa accade in questi luoghi.
Amnesty International ha conferito all’attrice Jennifer Lopez il premio “Artists for Amnesty” proprio per aver dato voce alle donne vittime del femminicidio in Messico.
Purtroppo ancora oggi, nonostante gli appelli, molte ragazze continuano a sparire.

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