Io, immigrata.

staffetta.jpgSono arrivata in Svizzera nell’agosto del 2001. Sono passati otto anni e mi sembra ieri che preparavo le valige e salutavo i miei familiari e la mia terra per seguire mio marito in questa avventura. Lui viveva qui già da quasi quattro anni, passati da stagionale.

Alla consegna del permesso di soggiorno annuale ci siamo sposati.
Facciamo entrambi parte di quelle 700.000 persone che nell’ultimo decennio hanno lasciato il Sud Italia in cerca di un lavoro.

All’inizio l’integrazione, in questa parte della Confederazione, non è stata molto semplice, soprattutto per via dei problemi di comunicazione e delle diversità culturali.Ancora oggi, non avendo ancora fatto completamente mia la mentalità del luogo, trovo difficili molte cose: sbrigare un documento o andare a comprare un etto di prosciutto sono per me motivo di preoccupazione e imbarazzo alla stessa maniera. Fortunatamente la gente del luogo è sempre abbastanza comprensiva, disponibile e preparata al contatto con gli stranieri.

Da quando sono mamma, comunque, riesco ad accostarmi più serenamente alla realtà del luogo in cui vivo: il fatto di avere un bambino mi rende più naturali ad esempio i contatti con le altre mamme e mi avvantaggia soprattutto a livello di inserimento "pubblico". Presto infatti entreremo a far parte di un progetto sperimentale studiato appositamente per chi, come me, ha una scarsa conoscenza del tedesco e si deve preparare ad affrontare uno degli avvenimenti più importanti nella vita di un figlio: l’ingresso a scuola.Frequenteremo assieme un corso di lingua ideato proprio per mamme e bambini che si prefigge di condurci per mano verso un sistema scolastico che è molto diverso da quello del nostro Paese e al quale siamo abituati.

Tornando indietro di quattro anni,ripensando a tutto il percorso della gravidanza e del periodo successivo alla nascita di mio figlio, mi tornano in mente il riguardo e la delicatezza, oltre che l’estrema competenza, con cui sono stata trattata. Mi viene da sorridere pensando a tutte le culture con cui sono venuta a contatto in quei giorni:
dall’ostetrica bulgara, che parlava perfettamente l’italiano, come pure il mio ginecologo cileno, allo staff medico, che per oltre la metà era immigrato come me. Tutti hanno contribuito a farmi vivere serenamente quei momenti così importanti, senza farmi pesare minimamente il fatto di trovarmi in un paese straniero.

Per noi italiani emigrati all’estero, nonostante tutto, le sensazioni non sono cambiate molto rispetto a quando a partire erano i nostri nonni o i nostri genitori: parlando con tanti connazionali mi accorgo che un po’ tutti ancora oggi immaginiamo, forse un po’ ingenuamente, di restare qui solo il tempo necessario per assicurarci in un futuro non troppo lontano, un’esistenza serena nel nostro Paese.Viviamo intanto sospesi tra l’Italia e la Svizzera, non ci sentiamo più completamente italiani e non ci sentiamo ancora completamente svizzeri.

Mi sento ugualmente molto fortunata: vivo in un luogo lontano, ma civile.
In questi ultimi tempi mi capita spesso di pensare a quello che succede in Italia quando si parla di stranieri: alla fine è un po’ quello che succedeva ai nostri nonni quando  lasciavano quel poco che avevano per partire per un paese sconosciuto, senza un soldo, affrontando spesso vere odissee per raggiungere la "terra promessa". Alcuni hanno trovato fortuna, ma la loro vita, anche se sicura dal punto di vista finanziario, è sempre stata piena di piccoli insopportabili promemoria del fatto che loro non sono mai del tutto accettati in un paese che chiamano casa da tantissimi anni.

È successo anche a noi di essere discriminati, anche in maniera violenta: ma l’Italia dalla memoria corta ha dimenticato la feroce caccia all’italiano nelle saline della Camargue, o negli Stati Uniti dove, dal massacro di New Orleans a quello di Tallulah, il popolo italiano è stato linciato senza pietà, ha dimenticato gli episodi di intolleranza di cui fino a qualche anno fa erano vittima i nostri connazionali in Germania e in tanti paesi europei.

Da straniera e soprattutto da mamma mi auguro che il pregiudizio verso "il diverso" venga al più presto superato e che una persona, da qualsiasi posto arrivi e ovunque vada, venga percepita sempre come un’opportunità, una risorsa a cui attingere. La mia speranza più grande è che in tutti i paesi del mondo ci si possa finalmente sentire davvero a casa.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.