Compiti a casa sì o no? Intervista a Maurizio Parodi

compiti a casaA giudicare dal successo della petizione “Basta Compiti” (quasi 10.000 firme raccolte ad oggi) lanciata dall’omonima pagina Facebook, si direbbe che il tema dell’opportunità dell’assegnazione o meno dei compiti a casa è realmente attuale e sentito. L’ideatore della pagina social nonché della petizione, non è, come si potrebbe sospettare, uno studente svogliato né un genitore esasperato. Maurizio Parodi infatti, è un dirigente scolastico, attivo autore di saggi e di articoli che scrive di sé: “si occupa di formazione, ricerca, progettazione in ambito socio-pedagogico, non ancora rassegnato all’impermeabilità degli apparati educativi”.

Benvenuto Professor Parodi e grazie per aver accettato il nostro invito. Iniziamo con le domande. Quando e perché è iniziata la battaglia sui compiti a casa?

È iniziata molto tempo fa.

Nel 2001 pubblicai sulla rivista «L’Educatore» (Fabbri), l’articolo: Compiti a casa e metodo di studio: un paradosso pedagogico. Dieci anni dopo, ho scritto: Basta compiti! (Sonda). Nel 2014 ho creato l’omonima pagina facebook, gruppo pubblico (“aperto”) che ha superato i 6 mila iscritti. L’anno scorso, ho creato, sempre su facebook, un gruppo professionale (“chiuso”) che raccoglie più di cento tra Docenti e Dirigenti a Compiti Zero. Lo stesso anno è uscito l’ebook: I compiti fanno male, che riporta, testimonianze, proposte, riflessioni pubblicate sulle pagine dei due gruppi. Attualmente la petizione Basta compiti! ha quasi superato le 10 mila firme.

Le ragioni di questo impegno sono molte; provo a schematizzare…

I compiti a casa sono inutili: le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate, a comando (interrogazioni, verifiche…), hanno durata brevissima; non “insegnano”, non lasciano il “segno” – dopo pochi mesi restano solo labili tracce della faticosa applicazione;

Sono dannosi: procurano disagi, sofferenze soprattutto agli studenti già in difficoltà, suscitando odio per la scuola e repulsione per la cultura, oltre alla certezza, per molti studenti “diversamente dotati”, della propria «naturale» inabilità allo studio;

Sono discriminanti: avvantaggiano gli studenti avvantaggiati, quelli che hanno genitori premurosi e istruiti, e penalizzano chi vive in ambienti deprivati, aggravando, anziché “compensare”, l’ingiustizia già sofferta, e costituiscono una delle ragioni, più gravi, dell’abbandono scolastico;

Sono onerosi: spesso costringono i genitori a pagare lezioni private, se ne hanno la possibilità economica (ulteriore discriminazione), perché i figli facciano ciò che evidentemente non sono in grado di fare – un “affare” da milioni di euro, per di più in nero;

Sono prevaricanti: ledono il “diritto al riposo e allo svago” (sancito dall’Articolo 24 della dichiarazione dei diritti dell’uomo), e quello scolastico è un “lavoro” faticoso, spesso alienante – si danno compiti anche nelle classi a tempo pieno, dopo 8 ore di scuola, persino nei week end;

Sono impropri: costringono i genitori a sostituire i docenti; senza averne le competenze professionali, nel compito più importante, quello di insegnare a imparare (spesso devono sostituire anche i figli, facendo loro i compiti a casa);

Sono limitanti: lo svolgimento di fondamentali attività formative che la scuola non offre (musica, sport…) e che richiedono tempo, energie, impegno sono limitate o impedite dai compiti a casa;

Sono stressanti: molta parte dei conflitti, dei litigi (le urla, i pianti, le punizioni…) che avvengono tra genitori e figli riguardano lo svolgimento, meglio il tardivo o il mancato svolgimento dei compiti, quando sarebbe invece essenziale disporre di tempo libero da trascorrere insieme, serenamente;

Sono assurdi: si danno persino i “compiti per le vacanze”: un ossimoro, un assurdo logico (e pedagogico), giacché le vacanze sono tali, o dovrebbero esserlo, proprio perché liberano dagli affanni feriali e invece si trasformano in un supplizio, creando stress, sofferenza, insofferenza;

Sono malsani: portare ogni giorno zaini pesantissimi, colmi di quadernoni e libri di testo, è nocivo per la salute, per l’integrità fisica soprattutto dei più piccoli, come dimostrato da numerose ricerche mediche.

compiti a casaQuali sono gli ostacoli maggiori che sta incontrando?

E’ difficilissimo discutere con i docenti di questo tema “razionalmente”, perché entrano in gioco convinzioni e atteggiamenti “pre-razionali” (nessuno ha mai dimostrato che i compiti a casa siano utili, e le scuole migliori del mondo non ne assegnano, mentre è del tutto evidente il danno che procurano, anche in termini di mortalità scolastica): si tratta di ritualità burocratiche che scandiscono la liturgia didattica, imposte da apparenti necessità (quasi fisiologiche) di un apparato impermeabile, autoreferenziale. Perciò è tanto più apprezzabile l’adesione di oltre 120 docenti “a compiti Zero”, di ogni ordine e grado scolastico.

D’altra parte, i genitori sono rassicurati dal modello di scuola che (ri)conoscono, quello del quale sono espressione e che i docenti, e l’apparato, tendono ad accreditare e perpetuare, perciò è molto difficile introdurre elementi di razionalità e sensatezza, giacché all’interno e dall’esterno si esercitano fortissime pressioni volte a conservare un sistema pedagogicamente compromesso.

 

compiti a casaLa teoria secondo la quale assegnare i compiti a casa e per le vacanze sarebbe non solo inopportuno ma persino dannoso è supportata da studi scientifici?

Recenti rapporti OCSE hanno confermato che i nostri studenti sono i più oberati dai compiti, eppure si registrano livelli di analfabetismo funzionale a dir poco imbarazzanti (lingua, matematica), e la nostra scuola eccelle per l’incapacità, scandalosa, di compensare le diseguaglianze di partenza (facciamo peggio di Bulgaria, Romania e Ungheria), per non dire dell’abbandono scolastico… In altre parole: la scuola (italiana) che si basa sui compiti (opprimenti, soverchianti) fornisce competenze miserrime, favorisce l’allontanamento o il fallimento soprattutto di chi sia svantaggiato, e promuove chi sia privilegiato (economicamente, socialmente). Il nesso è abbastanza evidente.

Si provi a verificare quanto è “rimasto “dopo qualche mese (non dopo anni) di quel che è stato faticosamente (a prezzo di sacrifici, rinunce) memorizzato attraverso lo studio domestico, “feriale e festivo” … Ma potrebbe rispondere qualsiasi genitore o qualsiasi docente (in buona fede): nulla o quasi nulla. Si tratta di un sapere usa e getta, che attiva solo la memoria a breve termine, perciò siamo così ignoranti (come ampiamente e ripetutamente dimostrato).

 

writing-711286_1920Lei sarebbe favorevole a un alleggerimento dei compiti a casa piuttosto che a una totale eliminazione?

Certo, meno compiti si assegnano meglio è. Ma resta il problema di fondo: perché si assegnano?

Si tratta di un impegno irrinunciabile per la quasi totalità dei docenti che però non chiariscono, a se stessi, prima ancora che agli studenti e ai loro genitori, le ragioni di una così radicata e diffusa consuetudine. Ancor più improbabile trovare negli strumenti di documentazione in uso nelle scuole (Registri, Agende, Quaderni, Diari, Verbali…) riferimenti a scopi men che generici: non vi è traccia di una definizione puntuale, operativa degli obiettivi didattici che ci si prefigge di raggiungere attraverso lo svolgimento dei compiti a casa.

Impensabile, date le premesse, la predisposizione di appositi strumenti di verifica, utilizzando i quali si possa stabilire se tale attività abbia prodotto gli effetti desiderati; non ci si impegna, cioè, a specificare gli indicatori (in termini di sapere, saper fare, saper essere) che dovrebbero stimare l’efficacia della procedura adottata.

Volendo essere ancora più chiari: gli insegnanti non dicono (e nemmeno scrivono) perché danno i compiti a casa, e non si attrezzano per stabilire se l’impegno sia utile, in che senso lo sia, se sia questo il solo modo o il modo migliore, il più «economico» e razionale per ottenere i risultati (quali?) attesi.

La risposta che più frequentemente ricorre, nelle rare occasioni in cui qualcuno si provi a chiedere spiegazioni in merito, è fin troppo ovvia, quasi superflua: i compiti a casa servono allo studente per imparare a memorizzare i contenuti dell’insegnamento, a riferirli nel corso dell’interrogazione e impiegarli nella prova scritta, a strutturare logicamente le informazioni, a rielaborare i dati trasmessi durante la lezione o la lettura del manuale, per imparare ad applicare le conoscenze acquisite, a dimostrarne la padronanza, insomma per apprendere, costruire, sviluppare, perfezionare il metodo di studio.

Se così fosse dovrebbero essere svolti a scuola con il vigile, solerte contributo del docente, perché proprio questo è il “compito” principale della scuola, che non può essere delegato ad altri soggetti – sarebbe come dire che per insegnare la cosa più importante non è necessaria una preparazione professionale specifica (qualunque genitore si può sostituire all’insegnante) o che per imparare la cosa più importante lo studente non ha bisogno dell’insegnante (allora superfluo, inutile).

 

child-830988_1280Secondo lei è corretto affermare che i compiti a casa servono a responsabilizzare e favorire l’autonomia dello studente?

Non è corretto, si tratta, anzi, di una penosa mistificazione: i compiti a casa deresponsabilizzano la scuola.

Quella dei “compiti” è un’inveterata abitudine che si fonda sul principio (intangibile e paradossale) per cui a scuola si insegna e a casa si impara. A scuola non si impara a imparare, non si insegna a imparare. Però i docenti pretendono dai loro alunni l’impiego di un metodo di studio, ne lamentano, in sede di valutazione, l’assenza o l’inadeguatezza, stigmatizzando, nei giudizi, l’incapacità degli studenti più sprovveduti, attribuendo loro per intero la causa della mancanza. Il ragazzo non si applica, è dispersivo, non ha metodo: mai che a tali sentenze si accompagnino dichiarazioni impegnative per l’insegnante (Io che cosa ho fatto per aiutarlo a darsi un metodo?). Ed è perfettamente logico: se è a casa che si impara, svolgendo appunto i “compiti” assegnati, la responsabilità del fallimento non può che essere dello studente e della sua famiglia. Dunque il “compito” principale della scuola è di fatto delegato per intero allo studente che deve provvedervi autonomamente, con proprie risorse – lezioni private, comprese.

La scuola non si interroga su come gli studenti imparano (interroga per sapere se hanno imparato), sulle peculiari modalità di approccio al sapere che informano l’esperienza cognitiva di ciascun individuo, non aiuta a esplorare introspettivamente le proprie originali strategie apprenditive, così da poterle impiegare consapevolmente, sviluppare e integrare.

I docenti ignorano gli «stili cognitivi» degli allievi, e si limitano a un insegnamento univoco, oltreché unilaterale; non si curano di controllare la «proprietà», la fruibilità degli interventi didattici, non è compito loro: loro insegnano, sono gli studenti che devono imparare (a imparare).

In altre parole, lo studente è lasciato solo quando avrebbe maggior bisogno dell’insegnante.

Così i ragazzi che abbiano genitori premurosi e culturalmente attrezzati possono affrontare l’impegno domestico con relativo disagio o minore insofferenza; ma per chi non trovi nelle figure parentali sostegno e sollecitudine, e magari ne debba subire la latitanza o, peggio, l’intemperanza, le difficoltà poste dallo svolgimento degli stessi compiti assumono ben altra consistenza; la fatica, spesso incomprensibile e frustrante, è incomparabilmente più dolorosa (i compiti sono discriminanti anche perché indiscriminati).

Ancora un paradosso: gli studenti che non hanno problemi svolgono regolarmente i compiti loro assegnati, e per questo la scuola li premia; gli studenti che invece hanno problemi (personali e/o familiari), quelli che della scuola avrebbero più bisogno, non fanno i compiti, li sbagliano, li fanno male, indisponendo i docenti che per questo li biasimano e redarguiscono, infierendo con brutti voti, note e, finalmente, la bocciatura, punendo così l’indigenza, il disagio, la sofferenza, espellendo dal «sistema» proprio chi nel «sistema» potrebbe trovare l’unica opportunità di affrancamento e promozione.

 

Compiti a casaNon pensa che togliendo i compiti a casa i ragazzi trascorrerebbero troppo tempo tra smartphone e videogiochi?

Se, come credo, i compiti sono dannosi, controproducenti (abbandono scolastico, penalizzazione di chi sia svantaggiato, ripugnanza per lo studio e la cultura…) devono essere eliminati: primum non nocere!

Per limitare l’abuso “tecnologico” dobbiamo suscitare l’odio per la scuola?

Sarebbe a dir poco autolesionistico.

Ma, in questo caso si pone un ulteriore problema: quello del rapporto scuola – famiglia e della tendenza dell’una a prevaricare l’altra, a trasformare quella scolastica in una esperienza totalizzante. Mi spiego

Tutti i docenti rivendicano il rispetto dei ruoli; dicono: gli insegnanti devono fare gli insegnanti e i genitori non devono permettersi di dire ai docenti cosa devono fare in classe con i loro studenti.

Peccato che siano i docenti a decidere cosa debbano fare i genitori a casa propria, con i propri figli, costringendoli nel ruolo di insegnanti di complemento, controllori, carcerieri, allorché siano obbligati, loro malgrado (e sempre che lo sappiano e lo possano fare), ad aiutare gli “studenti” nello svolgimento degli esorbitanti compiti a casa, o più semplicemente (si fa per dire) a imporre, in modo più o meno violento, l’adempimento.

Peccato che siano i docenti a decidere del tempo libero degli studenti e delle loro famiglie, colonizzato, spesso esaurito, dagli impegni scolastici – studio sempre più “matto e disperatissimo”, già a partire dai primi anni di scuola, per effetto della moltiplicazione di insegnamenti e insegnanti, con l’indecente corollario delle “lezioni private” (per chi possa permettersele).

Peccato che siano i docenti a pretendere che i genitori li sostituiscano nella soluzione dei problemi che in classe, evidentemente, non sanno gestire (penosa ammissione di incapacità e fallimento), attraverso le “note di condotta”, una delega impropria e umiliante per chi abdichi, in tal modo, alle proprie responsabilità professionali.

Peccato che siano proprio questi docenti (per fortuna non tutti) a confondere i ruoli, a invadere il campo altrui e abbandonare il proprio, a permettersi ingerenze persino offensive.

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