semoi
Questa volta sono io l’alterata.
Alterata come solo le grandi emozioni ti alterano.
Alterata dai colori dell’arcobaleno.
Alterata dai periodi picassiani.
Alterata dalla vita normale che si perpetua semplicemente in una originalità esistenziale.
“semoi”, “ti prendo e ti porto via”
Questo non è uno suadede, è un flamenco.
Accozzaglia di rumori di nacchere, mantiglie nere e rosse, capelli lunghi-scompigliati-scuri di zingara, suoni ancestrali, giravolte di gonne a balze, sudore di vita, battute di tacco a scandire istante dopo istante il divenire precipitoso di un’esistenza normale.
Puzza di latte e biscotti con i grembi già pieni di figli che dovranno venire e cervelli analitici.
Digiuni catartici che anelano al viola. Le auree viola, sì della logica, ma anche della spiritualità e dell’ascetismo dei santi.
I colori drammatici dei tramonti africani.
Il vociare animalesco, e perciò vivo, delle borgate napoletane.
E’ un flamenco delle emozioni, un flamenco dell’anima.
Quella vita che ha l’ardore di tendersi come l’arciere con il proprio arco. E’ la traiettoria perfetta per centrare i propri sogni. La sbavatura di vento non calcolata, la potenza “logica” dei muscoli, la tensione di tutta una vita verso la meta.
Quella freccia scoccata.
Il colpo secco.
L’incipit.
L’arrivo.
Il centro.
La freccia che colpisce atrocemente potente quel punto lontano. Preciso ma lontano. Quella traiettoria che disegna l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e se dio vorrà la vecchiaia.
Quel punto preciso che è famiglia, la tua famiglia.
E’ quella traiettoria che descrive la tua freccia che mi fa trasecolare, che la rende simile alla mia, simile a quella di qualsiasi altra persona.
Ma le sbavature di vento ci caratterizzano, rendono uniche e irripetibili le nostre esistenze.
Agata, mia figlia, poteva essere Teresa. Avevo una prozia cieca che adoravo. Nessuno mi accarezzava i capelli, da piccina, come lei faceva con me.
Agata poteva essere Teresa.
Carla la madre. Teresa la figlia.
Teresa la madre. Carla la figlia.
Padri burberi e figlie accondiscendenti. Madri tenere ed alleate, fragili e potenti. Eurostar che s’incrociano. Un posto in prima classe, una di fronte all’altra, guardandosi di sfuggita con un libro in mano. Di Neruda, forse. Sfiorate, per caso, tra tutta l’umanità brulicante e palpitante delle stazioni.
Toscana, Campania. Nord-Centro-Sud.
Impressionante. Inquietante. Forse.
Ma poi Catania. E Agata, la santa della città. La sbavatura di vento.
E tutto è diverso.
E ora.
Il profumo di latte e biscotti.
I seni colmi di latte.
Le ginocchia sbucciate delle nostre figlie.
Le gravidanze da ricordare. L’onnipotenza dei parti. Nuovi figli. Speranze.
Madri passionali, tenere e logiche. Mariti d’amare. Figli a cui dare amore, speranza, futuri senza indugi, alleanze patriarcali.
Reciprocità di sentimenti. Tribolazioni materne.
Passato-presente-futuro. Giochi di specchi, sbavature di vento e ombre. Uguali e diverse.
Arcieri con il proprio arco. E le loro marce di Mendelshon. Loro, dei nostri figli. Non più nostre ma loro. Noi combinante a festa, con in mano un pugno di riso, e loro con i sorrisi stampati. Noi arcieri stanchi, con ormai poche frecce nella nostra faretra. Noi con il fiato sospeso ad aspettare il loro centro, ad aspettare la sbavatura di vento che ipotecherà il loro futuro, solo loro. Noi che deponiamo l’arco. Ora è loro. E guardiamo la loro vita in punta di piedi. E aspettiamo quello che ci vorranno dare: i loro figli, la nostra vita che si perpetua.
I volti solcati dalle rughe, le mani tremanti, i muscoli oramai molli, il cuore che palpiterà ancora, ed ancora, solo per loro.
E questa volta senza sbavature di vento.
Le tre età di Klimt. L’ultimo caschè di un tango durato una vita.
Carla – Feima 73
Alterata come solo le grandi emozioni ti alterano.
Alterata dai colori dell’arcobaleno.
Alterata dai periodi picassiani.
Alterata dalla vita normale che si perpetua semplicemente in una originalità esistenziale.
“semoi”, “ti prendo e ti porto via”
Questo non è uno suadede, è un flamenco.
Accozzaglia di rumori di nacchere, mantiglie nere e rosse, capelli lunghi-scompigliati-scuri di zingara, suoni ancestrali, giravolte di gonne a balze, sudore di vita, battute di tacco a scandire istante dopo istante il divenire precipitoso di un’esistenza normale.
Puzza di latte e biscotti con i grembi già pieni di figli che dovranno venire e cervelli analitici.
Digiuni catartici che anelano al viola. Le auree viola, sì della logica, ma anche della spiritualità e dell’ascetismo dei santi.
I colori drammatici dei tramonti africani.
Il vociare animalesco, e perciò vivo, delle borgate napoletane.
E’ un flamenco delle emozioni, un flamenco dell’anima.
Quella vita che ha l’ardore di tendersi come l’arciere con il proprio arco. E’ la traiettoria perfetta per centrare i propri sogni. La sbavatura di vento non calcolata, la potenza “logica” dei muscoli, la tensione di tutta una vita verso la meta.
Quella freccia scoccata.
Il colpo secco.
L’incipit.
L’arrivo.
Il centro.
La freccia che colpisce atrocemente potente quel punto lontano. Preciso ma lontano. Quella traiettoria che disegna l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e se dio vorrà la vecchiaia.
Quel punto preciso che è famiglia, la tua famiglia.
E’ quella traiettoria che descrive la tua freccia che mi fa trasecolare, che la rende simile alla mia, simile a quella di qualsiasi altra persona.
Ma le sbavature di vento ci caratterizzano, rendono uniche e irripetibili le nostre esistenze.
Agata, mia figlia, poteva essere Teresa. Avevo una prozia cieca che adoravo. Nessuno mi accarezzava i capelli, da piccina, come lei faceva con me.
Agata poteva essere Teresa.
Carla la madre. Teresa la figlia.
Teresa la madre. Carla la figlia.
Padri burberi e figlie accondiscendenti. Madri tenere ed alleate, fragili e potenti. Eurostar che s’incrociano. Un posto in prima classe, una di fronte all’altra, guardandosi di sfuggita con un libro in mano. Di Neruda, forse. Sfiorate, per caso, tra tutta l’umanità brulicante e palpitante delle stazioni.
Toscana, Campania. Nord-Centro-Sud.
Impressionante. Inquietante. Forse.
Ma poi Catania. E Agata, la santa della città. La sbavatura di vento.
E tutto è diverso.
E ora.
Il profumo di latte e biscotti.
I seni colmi di latte.
Le ginocchia sbucciate delle nostre figlie.
Le gravidanze da ricordare. L’onnipotenza dei parti. Nuovi figli. Speranze.
Madri passionali, tenere e logiche. Mariti d’amare. Figli a cui dare amore, speranza, futuri senza indugi, alleanze patriarcali.
Reciprocità di sentimenti. Tribolazioni materne.
Passato-presente-futuro. Giochi di specchi, sbavature di vento e ombre. Uguali e diverse.
Arcieri con il proprio arco. E le loro marce di Mendelshon. Loro, dei nostri figli. Non più nostre ma loro. Noi combinante a festa, con in mano un pugno di riso, e loro con i sorrisi stampati. Noi arcieri stanchi, con ormai poche frecce nella nostra faretra. Noi con il fiato sospeso ad aspettare il loro centro, ad aspettare la sbavatura di vento che ipotecherà il loro futuro, solo loro. Noi che deponiamo l’arco. Ora è loro. E guardiamo la loro vita in punta di piedi. E aspettiamo quello che ci vorranno dare: i loro figli, la nostra vita che si perpetua.
I volti solcati dalle rughe, le mani tremanti, i muscoli oramai molli, il cuore che palpiterà ancora, ed ancora, solo per loro.
E questa volta senza sbavature di vento.
Le tre età di Klimt. L’ultimo caschè di un tango durato una vita.
Carla – Feima 73