Zambia, capitolo 3: Maria

Buon-NataleLa prima immagine che ho dello Zambia, all’entrata dell’aeroporto, è quella di un cartellone pubblicitario della Zamtel, una compagnia telefonica, raffigurante una bambina con un vestito giallo che spiccava sulla sua pelle d’ebano.
Aveva un sorriso splendido. “Welcome to Zambia, the smile of Africa”.
Negli anni a venire avrei scoperto che quanto riportava quel manifesto era vero: in Zambia i sorrisi non mancano mai.
Sembra sciocco, ma nella paura e nell’incertezza del momento quella bimbetta fotografata in mezzo a un prato mi sollevava.

Ci facemmo timbrare i passaporti e appena usciti incontrammo Maria, che ci accolse con una gioia commovente.
In fin dei conti era da anni che aspettava questo momento.

Maria, burundese, aveva collaborato a un progetto dello SVI in Rwanda, dove viveva da rifugiata politica, negli anni ottanta.
Per farla molto breve, quando nel 1994 scoppiò la guerra civile, lo SVI chiuse il progetto rwandese e venne via. Migliaia di profughi, tra cui Maria e tantissimi di quelli che poi sono diventati nostri collaboratori ed amici, iniziarono un esodo interminabile.
Loro sono tutti Hutu, cioè appartenenti all’etnia che iniziò il genocidio, e quindi perseguitati.
Che poi la maggior parte dei profughi fossero donne e bambini innocenti poco importa…

Maria camminò per dieci mesi, durante i quali perse il marito e il figlio e vide morire migliaia di persone attorno a lei: chi non veniva ammazzato a colpi di machete moriva di malaria o di colera. Dormiva nascondendosi nel fitto dei boschi, con i soldati alle calcagna. Attraversò, assieme ad altri, il Congo e l’Angola, per poi approdare nella pace e nella sicurezza dello Zambia. Con pochi altri sopravvissuti trovò rifugio nel campo profughi di Meheba. Da lì contattò i suoi amici dello SVI: “Siamo in Zambia, e… sia lodato Iddio… siamo ancora vivi.”
Posso immaginare quale gioia e sollievo provarono a Brescia quando udirono quelle parole.
Iniziò una collaborazione tra SVI e profughi burundo-rwandesi: con l’aiuto dall’Italia, fatto di qualche visita, di sostegno economico e assistenza tecnica, venne fondata una cooperativa che tutt’ora gestisce una sgranatrice di riso, porcili, pozze per l’itticoltura e microcredito di sementi.

I rwandesi sono dinamici, svegli, attivi, e nel giro di qualche anno iniziarono a vivere in modo molto più agiato degli zambiani stessi. Qualcuno riuscì ad aprire un negozio, altri si comprarono una macchina: tutto ciò era inaudito presso i locali.
I due capi tradizionali della zona, Chief Mumena e Chief Matebo, si resero conto che qualcosa non tornava, e chiesero ai rwandesi di aiutarli: anche loro volevano il benessere per il loro popolo.
Da quel momento ci fu una serie di visite dall’Italia, una lunga riflessione su come far partire un progetto, e alla fine l’invio di tre volontari fissi sul posto che avrebbero dovuto avviare il tutto, e cioè noi, che ora venivamo stretti nell’abbraccio euforico e commosso di questa donna meravigliosa.

Di questa donna dalla mente potente, che parla sette o otto lingue, che capisce tutto al volo, che vanta un carisma eccezionale.
Maria, ponte tra noi e una cultura apparentemente semplice ma in realtà oscura, intricata e concentrica.
Maria alla quale domandavo, chiedevo febbrilmente, e con cui a volte mi incazzavo perché certe cose noi occidentali non le concepiamo, non c’è niente da fare… “Maria, ma perché non possono cambiare le cose, non deve essere così per forza!” “Perché, perché… tu, Lidia, tu sei una donna bianca, non puoi capirlo”.
Maria, che ci accolse nella sua casa, nella sua famiglia incasinata, allegra, immensa, ed anche tra le sue braccia, come una mamma.
Maria, che coi suoi 100 kg riesce ad essere assolutamente bellissima, e sembra una regina quando indossa i suoi vestiti tradizionali, sempre diversi. Che ogni mese cambia pettinatura, che sta un’ora in bagno e ne esce profumatissima e morbida morbida.
Maria, che ride come una pazza, che si presta come ottimo bersaglio di scherzi scemi, che soffre il solletico come una bambina, che adora ballare, cantare e soprattutto mangiare.
Maria, che a volte va in un altro mondo, che con la testa è altrove, e forse è meglio non sapere dove, perché nella sua lotta per la sopravvivenza tra fango, merda e sangue deve aver visto ciò che pochi esseri umani riescono a sopportare senza impazzire.
Questa, d’altronde è l’Africa.
Maria è l’Africa.

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