Quando nasce una mamma?

È una domanda a cui non c’è una sola risposta, ne sono convinta.
Una mamma può nascere assieme al suo bambino, partorita dal suo primo vagito.
Oppure prima, davanti al test positivo o a un puntolino pulsante in un’eco.
O dopo, anche molto dopo.
Io come mamma sono nata quando mi hanno detto che mio marito non può avere figli.
Non tra nuvole e lenzuola, almeno.

Lì, ho capito di essere già mamma.
Delle mie speranze disperate, del mio desiderio di esserlo, del coraggio che non sapevo di avere ma ho dovuto trovare.
Per due anni, io sono stata una mamma con la pancia vuota.

Vuota di bambini, ma piena di… tante cose, che scalciavano più di mille bambini.
Un calcio, in pancia, a ogni domanda indiscreta "Voi figli quando? Voi figli, niente?".
A ogni inutile vanteria di semisconosciute "ahhh io son rimasta incinta subito!".
A ogni giudizio, che la fecondazione assistita, per tanti, è Male.

E tanti, troppi, si son permessi di dirmi cosa avrei dovuto fare, cosa no, senza sapere niente, dall’alto dei loro figli già nati, sicuri di non aver mai bisogno di seguire i loro stessi consigli… come se non fosse della mia pancia che stavamo parlando, della mia vita, del mio dolore.
Dell’amore che io avevo da dare.
Dei calci di dolore che io sentivo dal fondo della mia pancia vuota.

Non voglio fare una filippica, non voglio che arrivi solo la mia rabbia.
Se mi espongo, se denudo, qui, la parte più vulnerabile di me, è per dirvi che si può diventare mamma percorrendo molte strade.
Alcune più accidentate.

La mia strada è stata questa. Fatta di esami, di visite, di attese.
Di pudore annullato, davanti a troppi medici.
Di punture in pancia.
Di bambini persi.
Di mani intrecciate, tra me e mio marito.
Di amore profondo, di battaglie condivise.
Di mia figlia, alla fine, grazie a Dio.

Solo lei poteva dar senso al dolore che l’ha preceduta.
Ed era un senso che in qualche modo presagivo, quando piangevo ascoltando "eppure sentire nei sogni in fondo a un pianto nei cieli di cobalto c’è… un senso di te…".
Ma che non potevo immaginare essere un senso così completo, una redenzione totale.

Che sia benedetto, tutto quello che è stato per arrivare a lei.
Le visite, i farmaci, le ore a pensare a quale clinica, con quale medico, a studiarsi le percentuali per fasce d’età, a tentare senza osare sperarci.
E le visite, gli esami, il sentirsi indagata e sbagliata, il piangere sulle pance delle altre (e chi poteva poi immaginare che m’avrebbe regalato il pancione più bello del mondo).
E i test bianchi, le beta zero, le porte in faccia e i mattoni in testa.
E le croci sul cuore.

Siano benedetti i fallimenti, i mesi a finestre sprangate, i piccini perduti che le hanno spianato la strada, l’angoscia che mi serrava la gola nel viaggio verso Lugano (perchè siamo dovuti andare in Svizzera, alla fine. Fuorilegge. Turisti procreativi).

La pioggia che scrosciava, il giorno in cui lei ha intessuto il suo primo esistere.
La pioggia che scrosciava, il giorno del suo primo sfarfallare udibile.

Il sole è venuto dopo, l’ha portato lei.

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