Al primo uomo della mia vita.

Eccoci, l’ho trovato, il tempo di scrivere qualche parola anche per te.

Un ritaglio di cuore che lascio qui, che forse un giorno avrò il coraggio di mostrarti.
Perché noi due siamo timidi, babbo.
Noi parliamo poco, soprattutto tra noi. Ma ci diciamo tanto.

Ti dovrei confessare una cosa, forse.
Che ti voglio bene e che, se a mamma non lo dicevo, a te mi sforzavo anche di non pensarlo, perché ti vedevo così lontano.
Ti dovrei dire che da adolescente non sopportavo il tuo modo da so-tutto-io, i tuoi tentativi di pilotare la mia vita verso un ideale che per me non valeva nulla.
Ti dovrei dire che lasciavo apposta i calzini sulle scale, perché sapevo che ti innervosiva. Che lo facevo apposta perché io lavavo i piatti per te e spolveravo il tuo comodino, e tu potevi anche prendere i miei calzini e portarli di sotto, insomma

Non sono stata una ragazzina facile e me ne rendo conto adesso.
Nonostante la mia timidezza e il mio carattere un po’ remissivo, con te ho lottato.
Forse perché ti vedevo come me.
Forse perché tu eri meno forte della mamma. E allora con lei cedevo, con te no.

Ma se oggi penso a come mi guardavi, mi sento male.
Perché io ti rispondevo male, se ti rispondevo, oppure mi giravo dall’altra parte.
E tu rimanevi così deluso da non aver la forza di rispondere, di fare niente.

Ma i tuoi occhi, come sempre, parlavano, e io li ignoravo.
Odiavo la tua ignoranza, il tuo non capire.
Tu hai potuto fare solo la quinta elementare.
E adesso mi fai tenerezza quando non sai le cose, e non le capisci, e mi arrabbio se qualcuno riesce a spiegartele meglio di me.

Quando ho scoperto di essere incinta, ho pensato a te.
Avevo paura di dirlo a tutti, ma soprattutto a te.
Anche alla mamma. Ma lei, nella peggiore delle ipotesi, mi avrebbe rimproverato, fatta sentire un’incapace, oppure mi avrebbe dato uno schiaffo.
Tu, nella peggiore delle ipotesi, mi avresti guardato con quegli occhi delusi che io non so affrontare.
Perché mi fanno male, mi scavano dentro e rimangono lì.

Ma se la mamma è stata una sorpresa, tu lo sei stato di più.
Non ho avuto il coraggio di dirtelo io. L’ha fatto lei, la mamma.
Forse pensava che voleva essere con te quando avresti avuto un infarto. E invece no, mentre lei cercava di cacciare le lacrime davanti a me, tu mi hai solo detto: "Claudia, i problemi veri sono altri".

E per me quella frase è valsa più di mille parole.
Come se mi avessi ridato la vita, forse per la prima volta consapevolmente ti ho sentito padre, mi sono sentita accettata per quello che ero.

Una sera ti ho ascoltato parlare con la mamma di una cosa che non mi avevi mai detto.
Il giorno dopo che sono nata io, sei andato al lavoro e tra quei barattoli di vernici hai immaginato il giorno che mi sarei sposata. E hai pianto, tu che non piangi mai.
Solo per quel pensiero.
Solo a renderti conto che un giorno me ne sarei andata dalla tua vita.

Era questo quello che pensavo quando davo le ultime spinte per fare uscire Ale.
A quanto amore c’è tra un genitore e un figlio, tale da farci piangere solo per un’idea.
Ho pensato a te che piangevi tra le vernici e spingevo arrabbiata, arrabbiata per non aver capito tanto tempo prima quanto bene mi vuoi.

E poi, quando Simone è uscito con quel fagotto per farvelo vedere, io sapevo che li fuori eravate in tanti. Ma pensavo: chissà che faccia starà facendo il babbo.
Chissà se piange, anche ora.

E poi ancora, l’immagine di me che esco dalla sala parto traballante, appoggiata a Simone.
Di te che per primo mi corri incontro e mi abbracci.
Mi sorreggi per l’altro braccio, e mi dici soltanto "grazie".
GRAZIE.
E piangi, lì, davanti a me, indifeso.

Io che pensavo che questo nipote per te fosse una delusione.
Io che mi dispiacevo perché mai mi hai toccato quel pancione.

Ti ho scoperto Nonno, all’inizio un nonno un po’ frenato, un po’ timoroso.
Poi un Nonno.
Ogni volta che ti lascio Ale, ti guardo dai vetri della porta per vedere che gli fai le facce buffe.
Che gli dai un bacio.

E ti immagino che lo facevi con me.

Babbo, proprio quando ho sentito di averti finalmente trovato, dopo una vita di rifiuto, ho capito che potevo perderti.

Mentre buttavo la pasta, ho chiamato la mamma.
Eravate in ritardo, da quella visita per la tua prostata non tornavate più.
E mentre tu sei timido e chiuso e imprevedibile, la mamma non ha segreti.
Così, mentre diceva seria "Tra poco abbiamo finito", ho colto un singhiozzo. Ho chiesto se andava tutto bene.
Lei mi ha detto solo "No".

Ho pianto sui maccheroni, e sul piatto, poi ho pianto sulle guance di Ale mentre lo allattavo.
Poi ho smesso, perché stavi arrivando tu e non volevo che mi vedessi così.
Ma gli occhi mi si gonfiano come quelli di una rana, quando piango.
E allora mi hai visto e hai pianto anche tu.

Il tuo tumore, tu non te lo sentivi dentro.
Ti chiedevi com’era possibile che non te ne fossi accorto.
Perché era successo a te.

E nei mesi successivi, le visite, i se, i forse, le paure e le speranza.

E i tuoi occhi spenti, il tuo sorriso sempre tirato.
E lo vedevo babbo.
Lo vedevo da come guardavi me, e ancor più da come guardavi Ale, che pensavi che stesse finendo.
Che cercavi di memorizzare ogni piega della mano, ogni espressione degli occhi, perché avevi paura di non vederle più.

Hai lottato con la morte nel cuore. Hai lottato senza quella forza e quella convinzione che ti caratterizza.
Io ero arrabbiata con te, perché eri così arrendevole.
Mentre eri in clinica a Milano, io da qua ti pensavo.
Ho cercato tra le vecchie foto, nel tuo cassetto.
Ho trovato un album giallo senape che non avevo mai visto, tra gli album delle tue corse ciclistiche.
Il funerale di tuo papà.
Lui, il mio nonno, con la testa fasciata dopo un intervento al cervello, negli anni 70.
La nonna e la zia, ancora bambina, vestite di nero, abbracciate, con un velo spesso davanti agli occhi.
E poi tu, poco più che ventenne, con i jeans a zampa e i capelloni e quegli stessi occhi morti. Che presti la tua spalla al nonno nel suo ultimo viaggio.

Ho perdonato la tua disperazione, la tua resa a quel male troppo grande.
Ho capito che non combattevi perché avevi già combattuto con questo nemico e avevi perso.
E non volevi perdere ancora.

Ora però hai vinto.
Hai vinto senza nemmeno lottare tanto.
Hai vinto ed è una lunga corsa per recuperare tutto quello che c’era prima, ma hai vinto.
Eccoli i tuoi occhi che sono tornati a splendere, ecco che hai tolto la divisa dalla naftalina e hai ripreso la bici.
Ecco che prendi Ale per la manina e gli insegni il nome delle cose.

Eccoti, babbo.
Ora non ho paura, perché so che ci saranno ancora i tuoi abbracci per me, pur con poche parole.
Ma noi con gli occhi ci diciamo tutto, e le parole a che servono?
Ora lo so che mi vuoi bene, e so che io te ne voglio.
E che sei il primo uomo della mia vita, e nessuno ti potrà sostituire.
Simone l’ho preso apposta così. Così diverso da te.
Perché la verità è questa, che tu sei così, con i pregi, i difetti.
E con quegli occhi che sono anche i miei.
E sarai per sempre insostituibile.

Ora sono io che ti immagino al mio fianco, mentre mi accompagni all’altare.
Perché qualche mese fa non sapevamo se ci saresti stato.
Invece ci sarai, eccome.

Solo che adesso sono io quella che si commuove all’idea.

Solo Grazie, bà.

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