A proposito di farmaci generici, altrimenti detti “equivalenti”

986818_28611304.jpgI farmaci cosiddetti "generici" o "equivalenti" sono medicinali il cui principio attivo, cioè la sostanza che ha azione farmacologica, è già conosciuto perché commercializzato e ampiamente utilizzato a fini terapeutici da molto tempo sotto un determinato nome commerciale di fantasia, spesso molto conosciuto ma che non è più coperto da un brevetto che gli conferiva l’esclusiva commerciale e ne tutelava i diritti di vendita.

Il farmaco generico o equivalente, lo dice il nome stesso, è, o almeno dovrebbe essere, esattamente equivalente, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, al suo analogo già in commercio ma costa meno, mediamente il 20-25% in meno, con punte fino al 50% in taluni casi, e ha un nome diverso. La legge finanziaria del 1996 ne dà la seguente definizione: "i farmaci generici o equivalenti sono medicinali a base di uno o più principi attivi prodotti industrialmente non protetti da brevetto o certificato di protezione complementare identificati dalla Denominazione Comune Internazionale (DCI) del principio attivo o dalla denominazione scientifica del medicinale seguita dal nome del titolare della immissione in commercio".

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce i generici farmaci "bioequivalenti", cioè non solo uguali come principio attivo ma con la stessa biodisponibilità, ossia la stessa velocità e percentuale di assorbimento, lo stesso tempo di permanenza a concentrazioni terapeutiche, la stessa velocità media di eliminazione del farmaco di riferimento. La determinazione di questa bioequivalenza è definita da un organismo di controllo europeo, l’EMEA  (European Agency for the valutation of Medical Products). Le ditte farmaceutiche che producono i farmaci generici devono, quindi, dimostrare all’EMEA l’equivalenza del loro prodotto, per quanto riguarda i parametri standard di riferimento stabiliti, al farmaco più noto già registrato e commercializzato.

In commercio, rispetto a un farmaco già molto conosciuto col suo nome di fantasia (per esempio Zimox per amoxicillina, Aulin per nimesulide), possono esistere due tipi di equivalenti: quelli commercializzati con il nome della molecola dato dalla DIA, per esempio l’amoxicillina, chiamati farmaci "unbranded" e i farmaci cosiddetti "branded", che hanno anch’essi, come i farmaci più noti, un nome commerciale di fantasia, diverso, ovviamente, dal nome del più conosciuto farmaco "griffato". Per esempio, un farmaco commercializzato con il nome "acido acetilsalicilico" è un farmaco unbranded, mentre un farmaco commercializzato con il nome "aspirina" è un farmaco branded.

I farmaci equivalenti o generici devono avere le seguenti caratteristiche:

-non essere coperti da brevetto

-avere lo stesso principio attivo del farmaco coperto da brevetto

-avere la stessa forma farmaceutica di somministrazione, cioè capsule o compresse o fiale o supposte e via discorrendo

-avere le stesse modalità di rilascio (obbligo o meno di ricetta medica, rimborso da parte del SSN via discorrendo)

-avere lo stesso numero di unità posologiche o dosi unitarie per confezione (stesso numero di capsule o fiale in ogni confezione)

-la loro produzione deve essere sottoposta agli stessi controlli e alle stesse procedure di registrazione e vigilanza che il Ministero della Salute riserva a tutte le specialità in commercio

Ma cos’è il brevetto di un farmaco?

Il brevetto è un marchio di esclusività che tutela e garantisce chi trova qualcosa di nuovo e utile nel commercializzarlo in esclusiva per almeno 20 anni. Allo scadere di questo termine, altre aziende autorizzate potranno produrre e commercializzare lo stesso prodotto come generico. Il minor prezzo di quest’ultimo è dovuto al fatto che per esso non si sono spesi i soldi e le energie necessarie per la ricerca primaria e la sperimentazione iniziale. Normalmente, infatti, a rendere caro un farmaco o qualsiasi altro prodotto, sono gli anni spesi per la ricerca, la sperimentazione e il brevetto.

Prima di essere venduto al pubblico, un farmaco ha bisogno, a volte, di più di 10 anni tra ricerca e sperimentazione: esso viene selezionato tra centinaia di molecole chimiche simili tra loro sintetizzate per l’occasione, studiate per alcuni anni per poter scegliere la più attiva; segue poi l’analisi di efficacia e di tollerabilità per valutarne vantaggi, svantaggi ed effetti collaterali; se i benefici si dimostrano superiori agli svantaggi e di importanza rilevante, si passa poi alla sperimentazione clinica per stabilire la posologia e la via di somministrazione ideali, cioè più efficaci; infine, viene la parte burocratica e si passa alla registrazione presso le autorità competenti. Ogni passaggio richiede alcuni anni prima di ultimarsi e se si pensa che, a volte, capita di dover ricominciare da capo a causa di un inconveniente sopraggiunto in uno qualsiasi dei vari passaggi, si capisce come i costi per una azienda che decide di investire in ricerca e sperimentazione siano altissimi. È necessario, quindi, trovare un sistema che premi questi sforzi e che tuteli, con un brevetto, appunto, l’azienda che se ne fa carico. Se così non fosse, essa verrebbe immediatamente copiata da una concorrente a costo di ricerca zero e nessuno sarebbe più motivato a investire in ricerca e innovazione.

Se però l’azienda titolare della ricerca lo trova conveniente, attualmente può accordarsi con un’altra azienda e formare un co-trading, permettendo a una ditta concorrente di commercializzare quasi in contemporanea lo stesso farmaco e facendosi pagare parte delle spese da lei sostenute per la ricerca e la sperimentazione. In questo caso non si tratterebbe di farmaci equivalenti ma uguali, anche se con altro nome commerciale, perché anche la tecnologia utilizzata per la produzione del farmaco sarebbe, per contratto, in linea di massima, la stessa.

Dopo 20 anni di produzione in esclusiva, com’è stato detto, il farmaco puo’ essere "copiato" e altre ditte farmaceutiche possono commercializzarlo a minor costo ma con gli stessi controlli di qualità riservati al farmaco brevettato. Pertanto, il farmaco generico o equivalente assicura la stessa efficacia e affidabilità del farmaco griffato, così come gli stessi effetti collaterali, ove presenti e le stesse precauzioni d’uso, con il vantaggio di un risparmio economico per l’utente e per il Sistema Sanitario Nazionale che puo’ raggiungere anche il 50%. Ma sarà proprio così? Lo vedremo più avanti.

Dal 1° luglio 2001, il SSN rimborsa totalmente le prescrizioni di farmaci in base al costo medio inferiore dell’equivalente, calcolato farmaco per farmaco, purché esattamente bioequivalente. Se il cittadino insiste per volere il farmaco dal nome ormai a lui ben conosciuto, deve pagare la differenza. Il farmacista può solo informare il cittadino dell’esistenza del farmaco equivalente a quello richiesto e più economico ma se il farmaco viene venduto esclusivamente dietro presentazione di ricetta medica, su questa non deve essere specificato di pugno del medico che l’ha compilata "farmaco non sostituibile", altrimenti il farmacista non potrà sostituirlo con un farmaco più economico e neanche il paziente potrà rivendicare l’equivalente. Quando il medico appone sulla ricetta la scritta "non sostituibile" o quando il paziente stesso non accetta la sostituzione proposta dal farmacista perché preferisce il farmaco più caro al quale è abituato, la differenza di prezzo è a carico del paziente (eccetto invalidi di guerra e titolari di pensioni vitalizie). Dal 31 maggio 2005, il farmacista è tenuto a informare l’acquirente di un farmaco di fascia C, cioè non rimborsabile e a totale carico del paziente, dell’esistenza di un equivalente meno costoso e sarà l’acquirente stesso a decidere il farmaco che preferisce acquistare, a meno che, anche in questo caso, non vi sia sulla ricetta la scritta "non sostituibile" da parte del medico.

Il farmaco generico non è, quindi, un farmaco minore o di serie B o meno efficace, almeno in grandi linee, e tantomeno è un farmaco galenico preparato estemporaneamente nel laboratorio del farmacista: è un farmaco regolarmente prodotto e confezionato industrialmente che ha costi di produzione notevolmente inferiori e può quindi essere venduto a minor prezzo.  L’introduzione attuale di una legge a tutela del commercio dei farmaci generici è una garanzia per il consumatore perché prima della sua entrata in vigore, cioè prima della introduzione, in Italia, della legge brevettuale a tutela della casa farmaceutica titolare della ricerca, della scoperta, della sperimentazione del farmaco originale e innovativo, le aziende potevano liberamente e con disinvoltura copiare, registrare e commercializzare con un proprio nome di fantasia specialità copiate dai legittimi titolari di un brevetto purché non riconosciuto in Italia. Non vi era una univoca regolamentazione sui controlli e sulla sperimentazione del farmaco e un farmaco poteva essere commercializzato senza bisogno di alcuna documentazione attestante la sua bioequivalenza con l’originale. L’efficacia tra un farmaco e un altro considerato equivalente poteva quindi essere molto diversa.

Qualcuno, però, nonostante tutto, solleva anche oggi alcuni dubbi sulla reale sovrapponibilità di un farmaco equivalente a quello brevettato. Prendiamoli in considerazione uno per uno per chiarire le idee.

Due farmaci sono considerati bioequivalenti quando i loro profili concentrazione-tempo ottenuti con la stessa dose somministrata sono così simili  che è ragionevolmente impossibile che producano differenze rilevanti sia negli effetti terapeutici che in quelli avversi o collaterali. In effetti, i controlli effettuati danno uno scarto di biodisponibilità inferiore o uguale in tutto e per tutto alle fisiologiche differenze individuali di assorbimento, durata nel tempo e velocità di eliminazione del farmaco stesso presente in natura da individuo a individuo. Però, la sperimentazione dei farmaci equivalenti si effettua solo su individui volontari sani: manca una reale, approfondita sperimentazione del farmaco equivalente sul malato (come avviene per i farmaci brevettati) e mancano, di conseguenza, studi statistici di efficacia prodotti su un campione di soggetti malati, almeno in Italia. Ugualmente, il calcolo di efficacia e di scarto medio accettabile di efficacia (stabilito in un 20% circa) rispetto al farmaco di riferimento, si calcola sempre nel rapporto tra farmaco equivalente e farmaco di riferimento e mai tra un farmaco equivalente e un altro farmaco equivalente dello stesso genere: come a dire, se il farmaco X è 20% in meno efficace rispetto al riferimento e il farmaco simile Y è 20% in più efficace, sempre rispetto al riferimento, paradossalmente, comparati tra loro, i due farmaci equivalenti X e Y avrebbero uno scarto di efficacia del 40%, quindi sarebbero equivalenti solo rispetto al riferimento ma non tra loro due. In Italia si è ancora in attesa di un Red Book come quello che viene pubblicato periodicamente negli Stati Uniti che aggiorna su tutte le più recenti acquisizioni sperimentali sull’efficacia e l’equivalenza dei farmaci non brevettati.

Un altro dubbio sollevato è la validità di questo riferimento standard del 20% nella variazione in più o in meno di efficacia di un farmaco che viene valutata in modo troppo generico e non tiene conto del fatto che alcune categorie di farmaci hanno una validità terapeutica molto più sensibile e una efficacia che potrebbe risentire di variazioni individuali inferiori al 20%: è il caso, per esempio, dei farmaci anticoagulanti, soprattutto quelli assunti per bocca, degli antiepilettici e degli antiaritmici, considerati da tutti poco maneggevoli perché sensibili a scarti di efficacia troppo piccoli rispetto a farmaci che dimostrano comunque la loro efficacia anche in condizioni di assorbimento e di eliminazione molto diverse tra loro.

Una terza eccezione che viene sollevata nei confronti dei farmaci generici è la qualità e la raffinatezza delle tecnologie che le industrie produttrici di farmaci generici utilizzano per la preparazione degli stessi che non è detto sia sempre uguale a quella utilizzata per la preparazione del farmaco di riferimento. Alcune differenze di tecnologia si traducono anche in differenza di presentazione finale del farmaco equivalente: differenze nelle preparazioni granulari, nella solubilità e via discorrendo. Quanto queste differenze incidano sulla biodisponibilità e sull’azione biologica del farmaco non è ancora dato sapere con precisione, per mancanza, appunto, di studi sperimentali in merito.

 

Una quarta eccezione importante è quella della qualità e della natura degli eccipienti utilizzati per confezionare e stabilizzare i farmaci.

Secondo la legge DLgs323 del 20/06/96, la normativa sui farmaci generici prevede che essi debbano avere la stessa composizione qualitativa e quantitativa in principi attivi, la stessa forma farmaceutica e le stesse indicazioni terapeutiche ma la normativa non prevede la regolamentazione degli eccipienti contenuti nelle varie preparazioni farmaceutiche. Il problema, in certi casi, non è di poco conto, soprattutto in pediatria dove si fa molto uso di sciroppi con edulcoranti, sospensioni orali che prevedono la preparazione estemporanea del farmaco in forma granulare e preparazioni dermatologiche i cui componenti devono essere sempre molto sicuri. Vi possono, infatti, essere allergie o intolleranze a eccipienti diversi rispetto a quelli contenuti nel farmaco di riferimento. I celiaci, per esempio, devono fare attenzione alla presenza di derivati del grano, la saccarina usata come edulcorante può dare allergie crociate con i sulfamidici, preparazioni edulcorate con saccarosio o con glucosio dovrebbero essere evitate nei diabetici, l’aspartame non deve essere dato nei soggetti affetti da fenilchetonuria e via discorrendo.

Tutte queste considerazioni fanno dire che i farmaci equivalenti non possono essere etichettati come gemelli dei farmaci di riferimento ma solo come farmaci simili e non del tutto sovrapponibili. Due specialità medicinali, infatti, per essere perfettamente uguali, devono essere licenziate dallo stesso impianto di produzione, avere una identica composizione in principi attivi, una stessa granulometria, avere gli stessi eccipienti ed essere stati sottoposti alla stessa lavorazione tecnologica.

Bisogna, inoltre, precisare che la ditta titolare del brevetto, una volta scaduto, qualora volesse intraprendere la produzione di un farmaco equivalente a quello finora tutelato da brevetto, potrebbe farlo senza essere tenuta a presentare nuovi studi di bioequivalenza sul nuovo farmaco che intende commercializzare.

Come valutare, allora, alla luce di tutto ciò, i farmaci equivalenti? In linea generale, il giudizio è buono. Si può ragionevolmente accettare che i controlli preposti dall’AIC (Autorizzazione Immissione in Commercio) sui medicinali equivalenti forniscano una garanzia sufficiente per assumerli con serenità e fiducia ma bisogna insistere perché migliorino e si affinino i test di bioequivalenza con studi non solo su un campione di individui sani ma anche su malati proprio di quelle patologie che i farmaci intendono curare, così come è molto importante che vengano portati avanti ulteriori approfonditi studi longitudinali sulla bioequivalenza individuale. Ogni soggetto, infatti, dovrebbe sapere se e quali differenze di efficacia terapeutica esercita su di lui un farmaco raffrontato al suo equivalente. Bisogna quindi intensificare gli studi di bioequivalenza diversificati per categoria terapeutica e per classe farmacologica e quelli longitudinali comparativi su uno stesso soggetto e i risultati dovrebbero essere periodicamente pubblicati e alla portata di medici, farmacisti e utenti.

Da parte loro, i medici stessi dovrebbero, con uno sforzo di memoria, imparare a prescrivere i farmaci, salvo motivazione contraria, con il nome del principio attivo piuttosto che il più noto e memorizzabile nome di fantasia che rimanda a una ditta farmaceutica piuttosto che a un’altra ma sempre con la massima attenzione a tutte le componenti del farmaco stesso nella sua globalità, eccipienti inclusi, che, nel caso di prescrizioni pediatriche, anche i genitori dovrebbero imparare a controllare e paragonare.

Infine, sarebbe buona norma, almeno per ora, utilizzare soprattutto farmaci equivalenti noti per la loro maneggevolezza e la loro caratteristica di essere comunque sufficientemente efficaci anche in condizioni di minor assorbimento o, al contrario, privi di effetti collaterali significativi qualora il farmaco generico equivalente avesse la caratteristica di essere assimilato in quantità maggiore rispetto al farmaco di riferimento e continuare a utilizzare farmaci più noti per tutte le patologie che richiedono una maggior precisione di dosaggio e una maggior esperienza e consapevolezza dei loro effetti collaterali, quando potenzialmente importanti.

Anche il paziente, purché adulto, può aiutare il medico e orientarlo prestando maggiore attenzione al proprio corpo e alle sue reazioni in coincidenza con l’utilizzo di un farmaco piuttosto che un altro.

In definitiva: pregiudizi sui farmaci equivalenti no ma maggiori studi e maggiore attenzione al momento della loro prescrizione, sicuramente sì.

2 commenti su “A proposito di farmaci generici, altrimenti detti “equivalenti””

  1. Vi posso dare anche io una risposta dal punto di vista del consumatore.
    Sono identici ! Cambia solo il prezzo e la societa’ farmaceutica.
    Io preferisco il generico. Sfrotunatamente e’ possibile acquistarlo soltanto online. Ma comunque il risparmio e’ lo stesso notevole. Quando di bisogno di Valium ordino da kamagra-cialis.biz e mi viene consegnato a casa. Non serve nemmeno una ricetta medica. Affinche’ non cambiera’ qualcosa nella politica e monopolio farmaceutico in Italia, ordinero’ online !

  2. 😆 Cara Karima ,quante scemenze nel tuo commento
    Il generico detto meglio equivalente si trova in tutte le farmacie . Il fatto che un’azienda di fornisca senza la prescrizione di un medico il valium è molto grave essendo un prodotto il cui uso prolungato ti può procurare gravissimi guai. Attenta al salute

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