Un nuovo inizio

2237061185_27e1094baf_m.jpg"Noi siamo quelli che siamo stati in attesa. Noi siamo il cambiamento che cerchiamo. Change has come through America"

Il cambiamento è arrivato in America. E molti credono che il mutamento sarà globale.

Alla fine gli Stati Uniti, da sempre ancorati al leggendario sogno americano ci hanno confermato che "niente è impossibile": il primo afro-americano della storia entra alla Casa Bianca come 44° presidente della nazione; su quella poltrona siede "un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante".

Inevitabilmente la mente torna a tutti coloro che hanno lottato per concretizzare una realtà simile: Martin Luther King, Malcolm X, Nelson Mandela, ma anche uomini e donne di cui non si conosce il nome che hanno fatto della propria esistenza una lotta per ottenere i propri diritti, che ci hanno creduto.
Il loro giorno è arrivato.

Anche se Obama non ha fatto della questione razziale il punto di forza della sua campagna elettorale, nel momento del suo giuramento ha riunito accanto a sé tutte le persone che hanno finalmente visto cadere quella dolorosa barriera: nei teatri, nelle scuole, per le strade, nei centri per anziani, ovunque uomini e donne di tutti i colori e di ogni estrazione sociale erano riuniti a fare la storia.
In un momento di grande insicurezza per il mondo, Barack Obama rappresenta la svolta verso la modernità, trasmette fiducia, anche se parla di sacrifici per il bene comune al suo popolo, con "duro lavoro e onestà, coraggio e fair-play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo".
Parla di pace, di mano tesa al mondo mussulmano, di condanna alla violenza, di massacri degli inermi, di futuro da assicurare a ogni bambino, di lavoro, di istruzione, di diritto all’abitazione, di assistenza sanitaria, di ecologia.
Parla con schiettezza.
Quella qualità che quasi sicuramente lo ha portato alla casa Bianca, perché a differenza di tutti gli altri, non ha mai a tutti i costi cercato di dissimulare la realtà.
L’America di Barack Obama è una potenza che ha commesso tanti errori, non ultimo l’aver trascinato il resto del mondo in una crisi con pochi precedenti, ma si presenta intenzionata a porre rimedio, a traghettarci in una nuova realtà.
Da qui inizia il cammino di quest’uomo e di una nazione con una forte volontà di rinascita.
Inizia, come ha dichiarato lo stesso Obama, una "nuova era di responsabilità".

E la nuova era è iniziata.
A distanza di 15 giorni dal suo insediamento si avvertono i primi cambiamenti, i primi segnali che delineano una meta precisa, nessuna "lista della serva" fra gli impegni del nuovo presidente, ma obiettivi precisi di rinascita culturale.
Intanto al suo fianco, seduta alla poltrona che fu di Condoleeza Rice, la donna che in campagna elettorale è stata una "nemica", quell’Hillary Clinton uscita sconfitta dalle primarie, quell’Hillary Clinton che ha immediatamente dichiarato: "Io ci sono, mio Presidente", lanciando un’adesione di sapore quasi whitmaniano.
Una scelta, quella di Obama, che ci restituisce l’immagine dell’America delle grandi opportunità, ma soprattutto delle seconde grandi opportunità dove il "loser" è una risorsa da affiancare al vincitore e non più un perdente schiacciato dalla battaglia.

La prima scommessa sul tavolo del presidente: "l’ambiente come leva principale dello sviluppo". Cambiano le prospettive: i vincoli ambientali da rispettare non sono considerati dei "limiti" scomodi da bypassare per spingere l’economia oltre la soglia del bene comune in nome dello sviluppo ma diventano il presupposto dello sviluppo sostenibile:
– produzione innovata che tenga conto dell’impatto ambientale: più 20% di risparmio energetico;
– accelerazione della transizione dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili: più 20% di energie rinnovabili;
– prevenzione dei cambiamenti climatici: meno 20% delle emissioni serra.
Il tutto entro il 2020.

Ha iniziato con interventi concreti, ha iniziato dalla grande industria dell’auto americana che attraversa la crisi del secolo. Un segnale preciso: senza innovazione, senza occhio attento all’ambiente, senza ricerca non esiste sviluppo.
Ha dichiarato, il presidente, che intende andare "oltre Kyoto" ribaltando la posizione americana sul protocollo e la politica del suo predecessore.

La prima legge che Obama ha firmato va invece nella direzione della lotta alle discriminazioni che da troppo tempo stabiliscono una scala gerarchica di importanza dell’individuo nella società. Una legge che facilita la denuncia dei casi di discriminazione negli ambienti di lavoro, che restituisce al discriminato la fiducia in uno stato che predica l’uguaglianza.
Alla Casa Bianca, nel giorno della firma di questa legge, un’altra donna: Lilly Ledbetter, colei che per vent’anni lottò contro un colosso come la Goodyear perché pagata meno dei suoi colleghi maschi, solo perché femmina. Un’altra rivincita di una "perdente" a cui la Corte Costituzionale nel 2007 aveva detto no, aggiungendo umiliazione all’umiliazione.
"Ho firmato questa legge per le mie figlie e per chi verrà dopo di noi. La parità salariale non è solo una questione economica per milioni di americani e le loro famiglie, è una questione di chi siamo, se viviamo veramente secondo i nostri ideali."

Nelle finalità del maxipiano Obama, che ha passato indenne nei giorni scorsi il voto alla Camera e sta per essere presentato al Senato, 300 miliardi in aiuti agli stati per sviluppare l’edilizia scolastica, garantire l’assistenza sanitaria ai poveri e costruire ponti e autostrade.
Trecento miliardi che indicano tre precise direzioni: cultura, solidarietà, sviluppo.
Solidarietà per tutti, per i poveri, per gli ultimi, ma anche per i delinquenti e i terroristi detenuti a Guantanamo: "Mai più tortura in America, torniamo alla Costituzione". La prigione voluta da Bush verrà chiusa entro un anno.
"La sicurezza e lo stato di diritto non sono tra loro incompatibili", dichiara il nuovo presidente. Varrebbe la pena che la politica italiana ne prendesse atto visto che in controtendenza, in Italia, è partita una campagna persecutoria nei confronti dei clandestini a cui si vuole negare addirittura l’assistenza medica.

Infine la questione difficile del medio oriente e dell’Afghanistan, diversi i segnali che il nuovo presidente ha lanciato sin dalla campagna elettorale, la direzione è chiara: "Continueremo la lotta contro la violenza e il terrorismo e lo faremo in maniera efficace, ma in modo coerente con i nostri valori e i nostri ideali".
Fra le nomine degli inviati speciali spicca il nome di George Mitchell per il medio oriente.
La sua prima dichiarazione è confortante: "Non esiste un conflitto che non si possa chiudere, visto che a crearlo sono stati gli uomini e che può essere interrotto dagli uomini".

Non serve aggiungere altro, noi crediamo, se non:
"Buon lavoro Presidente, oh nostro Presidente", perché oggi siamo un po’ tutti americani, come quell’11 settembre di qualche anno fa.

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