La nascita di Teresa

Una seconda gravidanza fortemente voluta, arrivata prima ancora di elaborare bene il desiderio, vissuta con molta stanchezza e una bruttissima apprensione che, dal 26 agosto, giorno della morfologica, non mi ha più lasciata. C’era qualcosa che non andava, poi qualcos’altro, poi qualcosa ancora, così fino alla fine, fino all’incontro con quella creatura su cui avevo tanto fantasticato e per la quale avevo penato come non mai.

Il termine era il 3 gennaio 2006, ma non so per quale strano moto del mio animo, o forse solo per esasperazione, mi auguravo di anticipare, e anche tanto, visto che speravo scegliesse di nascere il giorno dell’Immacolata. Solo ora mi rendo conto di quanto fosse folle quel mio desiderio, incurante delle condizioni in cui sarebbe venuta al mondo la mia bimba così piccola. E mi chiedo quanto la mia psiche abbia influito sul mio utero, visto che proprio l’8 dicembre sono iniziate le prime avvisaglie.

Condizionata dai miei desideri, l’8 dicembre, verso le 15, sono andata a fare un tracciato: ero convinta di non sentire Teresa da 24 ore o forse volevo solo dare un’occhiata approfondita alla situazione. Ovviamente, come mi attaccano al CTG lei si muove. Facciamo circa venti minuti di monitoraggio, poi viene l’ostetrica a leggere il tracciato. Sgrana gli occhi e mi chiede se non avverto nulla. Un po’ di fastidio, quello sì, la pancia che si indurisce, ma nulla più. Lei mi dice che la macchina ha registrato contrazioni regolari più o meno ogni tre minuti! Mi consiglia di andare a casa e farmi un bagno caldo.

Andiamo da mia madre, dove tutti sono in fibrillazione. Nino porta Francesco a fare un giro e io mi faccio il bagno, mi profumo tutta e mi coccolo un po’. Mia mamma mi guarda tanto la pancia, le sorrido… Per quella strana alchimia tra donne, sappiamo che non la vedremo ancora a lungo. Decidiamo comunque di andare a fare compere per Natale. Ci avviamo in macchina verso il negozio di giocattoli dove sappiamo che c’è un Babbo Natale che distribuisce doni ai bimbi, e, mentre sono lì che telefono a destra e a manca, ebbra di euforia per dire che forse ci siamo, avverto un forte dolore: lo riconosco, è il dolore della vita che arriva.

Giriamocome dei pazzi per cercare un fiocco, nessuno mi piace. Alla fine mi faccio spennare: trenta euro per un fiocco nascita, ma ormai ho perso la percezione del reale. Telefoniamo ai miei e ci mettiamo d’accordo per prendere le pizze e mangiarle da loro.
Mentre Nino è in pizzeria, scendo e vado a sedermi dietro con Francesco. Inizio a piangere, lo bacio e lo accarezzo, lui mi guarda senza capire. Io mi sento in colpa per il tempo che gli toglierò, perché so che dovrò stare alcuni giorni via da casa, che mi mancherà da morire e che quando tornerò niente sarà più come prima.

Ceniamo, intanto segno le contrazioni: abbastanza regolari, ma non dolorose. Decidiamo di lasciare Francesco a dormire dai miei, andiamo a casa, preparo la borsa e mi metto sul divano a guardare "Il senso della vita" con Nino. Verso le 23:30 le contrazioni spariscono. Ecco, un altro falso allarme, penso. Andiamo a letto. Ovvio che non riesco a dormire. Verso l’una e trenta riprendono debolmente. Controllo l’intervallo sul cellulare: circa undici minuti. Mi assopisco. A un certo punto sento un dolore sordo e un "tac", che sono convinta di aver avvertito con le orecchie, non con il ventre. Guardo l’ora, le 2:15. Rimango pietrificata, immobile, aspettando di sentire, come la prima volta, le acque calde bagnarmi il pigiama. Ma non succede. Aspetto. Di nuovo, un dolore intenso, senza colpi però, e il liquido caldo che sgorga nel letto. Scuoto Nino, ma sono calmissima. "Nino, le acque". Non capisce subito, devo chiamarlo un’altra volta: "Nino, ho rotto le acque!". Ci prepariamo, scende a tirar fuori la macchina, chiamo mia madre e le dico solo: "Ci siamo, vado in ospedale. Bacia il mio bambino".

La strada è deserta. È di nuovo notte, come la prima volta. Posso sentire il rumore del mio cuore che batte. Ho gli occhi fissi sull’orologio dell’auto: quest’anno infatti l’ospedale è stato trasferito in un posto un po’ più lontano da raggiungere, il tragitto mi sembra eterno, le contrazioni sempre più frequenti. Iniziano a far male, all’improvviso ricordo tutto il dolore che avevo dimenticato e… ho paura.

Arriviamo al Pronto Soccorso. Mi chiedono se voglio una sedia a rotelle o ce la faccio ad andare in reparto a piedi, scelgo questa opzione. Arriviamo su. L’ospedale è immerso in un silenzio irreale. Conosco il ginecologo che mi accoglie, ma lui è rincoglionito dal sonno, ci mette un attimo a ricordarsi di me. Mi fanno tutte le domande di rito, poi l’ostetrica mi accompagna in camera, dove c’è una ragazza esausta: ha partorito due ore fa. L’ostetrica mi dice di non darle retta e non farmi impressionare. Le rispondo che non c’è problema, so già di che si tratta. Mandano a casa Nino: non di nuovo, non di nuovo! Ma questa volta ero preparata, e gli intimo di restare nel parcheggio!
Mi metto nel letto, attaccata al cardiotocografo. Guardo fuori dalla finestra la neve che copre tutto e il riverbero dei fari delle auto. Verso le 4:30 le contrazioni iniziano davvero a farsi sentire. Avviso subito le due ostetriche di turno che voglio l’epidurale, ma sembrano non darmi retta. Mi ripetono tutte: "Arriviamo a quattro centimetri e poi vediamo", "Poi chiamiamo tuo marito", poi poi poi… mi sembra che non sappiano dire altro.

Alle 5 inizio a gemere. Mi spiace, sono in reparto e non voglio svegliare le altre mamme, ma il dolore è forte e non posso farci nulla. Viene un’ostetrica e mi insegna un modo per respirare, sembra lenire un po’ il dolore: quando la contrazione arriva al culmine chiudo gli occhi e mi immagino il visetto di Francesco, di corrergli incontro, stringerlo forte e dirgli: "Amore mio, la mamma arriva presto e ti ama tanto!". Alle 5:30 mi visitano nuovamente, trovano questi benedetti quattro centimetri e da quel momento gli eventi si susseguono con una velocità pazzesca. Chiamo Nino, arriva che io sono in un bagno di sudore. Devo approfittare del brevissimo intervallo tra una contrazione e l’altra per "saltare" letteralmente sulla sedia a rotelle che mi porta in sala travaglio. Arrivo lì quasi urlando. Continuo a ripetere a chiunque incontri che voglio l’epidurale, ma perché non mi ascoltano?! Chiedo di andare a far pipì, mi accompagna Nino, il pannolone che mi hanno messo mi impaccia un casino. Mi ristendo a letto, l’ostetrica continua a dirmi di mantenere la calma che ormai ho perso e che è inutile fare l’epidurale perché tanto con il secondo si fa prima, ma non me ne frega niente! Intanto il dolore mi sembra insopportabile e continuo, stringo forte la mano di Nino e piango e urlo, gli dico che non ce la faccio, che ho paura di morire per il dolore, che non me lo ricordavo così.

Arriva l’anestesista: una stronza incredibile che con aria saccente inizia a dirmi che devo essere sicura, che non è priva di rischi, che devo pensarci bene (provi lei a mettere insieme un pensiero decente in quelle condizioni!). "Mi faccia firmare!", le intimo io. Mi guarda malissimo, ma credo avesse ragione. Quando arrivano per mettermi la flebo, non fanno in tempo a infilare l’ago che io strabuzzo gli occhi: mi sembra come se un treno spingesse a tutta velocità fra le mie gambe! Prima lo sussurro solo a Nino, sono incredula pure io. "Oddio devo spingere!", poi inizio a dirlo sempre più forte: "Devo spingere! Devo spingere!!!". L’ostetrica interviene energicamente: "Stai calma, sei solo a 4 centimetri". "Lo so, ma devo spingere!". Sono terrorizzata dall’idea che non sia il momento. Per Francesco, avendo fatto l’epidurale, non avevo sentito le spinte: mi avevano detto loro quand’era il momento di farlo e infatti ero andata avanti un’ora e trentacinque. Si mette i guanti per visitarmi, alza la testa e mi dice: "Te l’avevo detto che con il secondo si faceva prima! Vai tranquilla, si intravede la testa!".

Fa chiamare subito il nido, Nino esulta, mi dice che è quasi finita, che si vedono i capelli! Io non ci credo, il dolore è pazzesco, non hanno fatto in tempo ad attrezzare il letto, non ho nulla a cui aggrapparmi, mi sento una cimice rovesciata sulla schiena che agita braccia e gambe. Due spinte due. Fortissime, prolungate, infinite. Urlo: "Teresa esci, ti prego!". E poi la sento sgusciare fuori. La avvolgono velocemente in un telo verde e me la fanno vedere per pochissimi attimi. Intravedo solo la faccia rossa. È piccolissima, Dio quant’è piccola!! Riesco solo a ripetere questo, mentre chiedo a Nino di seguirla subito e informarsi se è sana. Crollo sfinita. Continuo però a piangere e a dire che è piccola, che non ce la può fare. L’ostetrica mi tranquillizza, mi dice che non è poi così piccola, che devo ancora concentrarmi, non è finita. Infatti mi aspetta un secondamento un po’ difficile e doloroso, ma ormai chi se ne frega. Dal corridoio sento un’infermiera che mi urla: "Come la chiama?".
"Teresa", sussurro io, "la mia Teresa".
Nino torna, mi dice che è sana, che è piccola ma cazzuta, che sta bene. La sento urlare! Quando tutto è finito e Nino è su con lei, chiudo gli occhi, ma prima di dormire chiamo mia madre e lei dico solo: "È fatta. È sana". Piangiamo tutt’e due.

E poi… poi tanti SMS, tante telefonate, tante, troppe ore senza vederla.
Mi dicono che per via del peso scarso l’hanno messa al nido patologico, che posso andare a vederla là e la tengono qualche ora. Non è vero, ce la tengono tre giorni. Tre giorni infiniti, in cui ogni tre ore percorro un corridoio lunghissimo per andare da lei, un corridoio che di notte sembra spettrale. Mi stringo nella mia vestaglia pregustando il momento in cui, suonando al citofono del nido, mi presento dicendo: "Sono la mamma di Teresa". Che suono meraviglioso ha questa frase!

Il resto lo sapete. La voglia di tornare a casa, le lacrime, il pensiero di Francesco che al telefono urla "Mammaaaa!". Fino a che non decido di tirare fuori le palle e portarmela a casa. Senza Nani, che mi dà una bella botta via sms, non ce l’avrei mai fatta! Faccio la borsa come un lampo, saluto le infermiere piangendo di gioia. Quando arrivo nella grande hall dell’ospedale c’è una scolaresca elementare che canta "Oh happy day": già, fra poco è Natale. Guardo la mia bambina, mi pianto nel corridoio come una statua e mi sciolgo in un pianto liberatorio. Tutte le ansie e le preoccupazioni, tutto svanisce, con la gente che mi guarda perplessa e Nino che mi abbraccia e ride con gli occhi lucidi.

Ancora una volta ho partecipato al miracolo della Creazione. Ancora una volta ho provato quell’incredibile e ineffabile senso di onnipotenza che a nessuno, oltre che alla donna, è dato di provare. E ho ringraziato il cielo! L’amore si moltiplica davvero, amiche mie e nel momento in cui l’ho vista la prima volta, la mia Teresa, ne ho avuto la certezza.

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