Depressione post partum II

postpartum2.jpgL’apertura del giornale, gesto abituale del mattino mentre prendiamo il caffè, porta quasi ogni giorno alla nostra attenzione il problema della maternità. Madri che non diventano tali se non in tarda età, tasso tra i più bassi d’Europa sulla natalità, madri aggressive verso i loro piccoli e, talvolta, persino matricide.
In America è uscito da poco un libro (Perfect Madness, di Judith Warner) sulla condizione della donna come madre nel quale è usato il termine “mess” che non è esattamente senso di colpa o stress, ma qualcosa di più e di diverso: “mess” è sostanzialmente un gran pasticcio, un caos, un perenne stato di ansia e di frustrazione alimentato dalla paura di sbagliare.

A questo proposito Silvia Vegetti Finzi ricorda la grande diversità che esiste tra il bambino sognato e il bambino reale, e quanta idealizzazione destinata a restare frustrata e, a sua volta a frustrare sia nata in questi anni intorno alla maternità.

Marina Piazza, sociologa, esperta di politiche di genere, ci dice che in questa società si apprezzano le competenze femminili, ma si pretendono comportamenti maschili. Dunque, la società attuale sembra richiedere un disconoscimento materno condivisibile dai più.
Maternità e ambiente, maternità sociale, questi i nuovi temi su cui gli esperti lavorano. Ma come mai ne discutono tanto gli esperti e così poco le donne giovani, le dirette interessate? Che ne è stato del movimento delle donne?

Le giovani donne sembrano soffrire di un’ansia perenne, sempre di corsa a rincorrere un lavoro temporaneo, un master nuovo, una posizione più prestigiosa, a passare dall’uno all’altro. E nonostante questa grande corsa, questo tentativo di assimilare sempre di più i comportamenti e le tecniche maschili “di competizione”, non riescono a raggiungere ruoli e livelli veramente importanti e di rilievo: è come se fossero sempre le eterne seconde di un podio la cui posizione di vertice è naturalmente destinata a un altro.

Frustrazione, aggressività, senso di impotenza, questo è quanto raccontano le giovani trentenni di oggi, le quali con il loro desiderio, assolutamente condivisibile, di volere essere apprezzate per le loro competenze, hanno finito per dimenticare le loro capacità di “rappresentarsi”, di chiedere alla società che fa finta di ascoltarle e di ottenere da essa risposte adeguate ai loro bisogni.

Mancano, nel nostro paese le strutture primarie idonee ad aiutare queste giovani donne a non sentirsi tanto sole. La recente indagine presentata alla Commissione Igiene e Sanità del Senato dalla relatrice Margherita Baio Dossi dà conto di come in Italia non si sia fatto quasi più niente, negli ultimi quindici anni, per aiutare le donne che lavorano. Mancano i nidi, mancano gli asili, mancano i luoghi di cura per affrontare questo nuovo stato sociale di solitudine delle giovani donne.

Ma il welfare, la sicurezza economica, i sostegni sociali, sebbene necessari, non sono sufficienti. Occorre un cambiamento culturale più profondo. È necessario ritornare a pensare che fare un figlio non è poi un avvenimento traumatico così profondo. Per fare questo è necessario che si ritorni ad una cultura del simbolo e del desiderio, ad un mondo in cui la cura dell’altro ridiventi uno dei punti centrali della prevenzione, al benessere sociale, in cui l’essere donne, e quindi potenzialmente anche madri, non sia un fastidio, ma una potenzialità.

Non possono esserci attese, e non possono esserci speranze se non nel contesto del tempo e quello che sembra mancare oggi è la conoscenza del “tempo”, di un “tempo interiore”. Tempo dell’attesa e della speranza, ma anche tempo della noia e della malinconia. Perché la concezione del tempo rende possibile riconsiderare la questione nell’orizzonte di alcune emozioni, senza le quali non è possibile intravedere il cammino frastagliato della vita.

Appare oggi decisivo rivedere, rivalutare, cambiare, riordinare l’assetto mentale non solo di chi chiede aiuto ma anche di chi l’aiuto è chiamato a darlo (medici, ostetriche, infermieri, psicologhe). Ritornare a guardare per capire, osservare per modificare, senza ancorarsi al ricordo di modalità terapeutiche e di modelli che hanno potuto funzionare in un particolare contesto sociale che appartiene al passato.

Occorre ritornare ai temi dell’incertezza e della speranza, del desiderio e della scoperta, della capacità di sopportare un nuovo che può anche destabilizzare. Ritornare ad osservare il silenzio del corpo che parla, della parola che non ha suono, del tempo interiore che è così diverso in chi è curato dal tempo di chi cura.

La depressione delle donne nel post partum sembra così legata non solo ad un avvenimento fisiologico ma anche ad un elemento psichico che si intreccia sempre più con elementi sociali, rendendo la cura più difficile e meno canalizzabile in categorie nosonomiche, perché le consuete categorie non avevano previsto l’esperienza del silenzio sociale.

Questa espressione, che potrà apparire assai strana, nasce da lunghi colloqui con le donne, con donne colte, istruite, con buone posizioni sociali, apparentemente “riuscite”, contraddistinte da quel modo di fare così rapido, rigido, incline al giudizio, aggressivo che la società in questi anni ha loro imposto per poterne fare parte. Un silenzio sociale che si è preso gioco di un mondo interno che chiede, in un frastuono di rumori che arrivano da tutte le parti, di potere stare in ascolto. Ma fuori dal mondo interno tutto corre così velocemente da non lasciare spazio al pensiero.

Per le generazioni passate, divenire madri era un passaggio naturale, quasi obbligato: un passaggio che chiedeva al mondo rispetto, ed era circondato da una certa sacralità.

 Penso al rito dell’ostetrica che arrivava a casa, delle bacinelle d’acqua calda, dei panni tenuti puliti e ordinati per l’evento, delle donne chiamate a raccolta intorno alla partoriente: la donna che stava per dare alla “luce” un piccolo viveva il rapporto con le altre donne in un clima di fiducia e di abbandono.
Penso al termine dare alla “luce”, che voleva significare e consegnare qualcosa di prezioso perché solo la luce fa crescere e dà la possibilità di trasformare il mondo intorno a noi.
Penso ancora ai quaranta giorni dopo il parto e alla loro ritualità: dal brodo caldo che le era riservato anche nelle famiglie più povere, al rispetto che veniva imposto al marito di avere per la sua donna, rispetto allora molto spesso disatteso nella quotidianità.

Era, dunque, una questione di tempo. Oggi, le strutture sanitarie di regola procedono alla dimissione della puerpera in terza giornata. Costei non ha ancora avuto il tempo per capire cosa è accaduto al suo corpo, che si trova già fuori, buttata nel brusio della vita, circondata da persone felici per lei, sorridenti ma veloci nei loro sorrisi, nel darle suggerimenti e prescrizioni.

Ho osservato a lungo le dimissioni ospedaliere; le donne poi me ne hanno raccontate tante. Nel vortice dell’efficienza standardizzata e nel mito delle economie di gestione, siamo divenuti molto bravi nel dare prescrizioni precise, cambi di pannolini, ore della poppata, sonno, veglia, cibo, visita di controllo del piccolo dopo una settimana e così via. Ma spesso si dimentica o si trascura di fermarsi ad osservare cosa accade nel caso specifico a quella donna con il suo bambino: una firma e buongiorno, adesso lei vada pure, è tutto fatto. Tutto effettivamente è stato fatto, con efficienza esperienza e scrupolo medico, con la speditezza necessaria e talvolta con la fretta che richiede la nostra società anche a chi deve partorire, dimentica del tempo.
 

Queste donne usciranno e cercheranno, perché non abituate a pensare al tempo interiore, di fare tutto in modo perfetto, di non disobbedire nemmeno ad una delle più minute regole insegnate tanto scrupolosamente nei corsi pre-parto, di allattare come loro insegnato, di cambiare, lavare e riordinare, di sorridere ed essere efficienti, di non lasciarsi trasportare dal tempo. Ma il tempo arriva inesorabile, e le ferma, le blocca. Allora tutto d’improvviso cambia: un’ora di tempo può diventare un’eternità, oppure essere breve e tumultuosa, angosciata o vuota, in connessione diretta con lo stato d’animo e le diverse emozioni che improvvisamente riflettono la percezione della vita che ognuna porta con sé.

Come possiamo riflettere sulla depressione se non proviamo a pensare al nostro tempo, alla sua dimensione soggettiva? Quando dilaga una depressione radicale la psichiatria insegna che il presente è risucchiato costantemente dal passato, che cresce tumultuoso come un fiume in piena; il futuro si sbriciola di fronte a tanto affluire e si dissolve.

Sant’Agostino, le cui riflessioni sulla dimensione del tempo e sulla dimensione soggettiva del tempo sono ancora oggi attuali, così scriveva: “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga non lo so: questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro, senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente” (undicesimo libro delle Confessioni).

Dunque il tempo delle illusioni, delle utopie, delle certezze, delle possibilità e delle impossibilità, dei sogni dolorosi fa parte del nostro mondo interiore; di contro, il tempo dell’orologio, della velocità, dell’efficienza, della quotidiana ansietà, fa parte del mondo esterno che non tollera di fermarsi e di ascoltare per cercare di comprendere. È come se si vivesse costantemente immersi in un mondo caratterizzato da un’effimera e falsa presenza di efficienza quotidiana.

Così racconta Antonia: “È come se fossi sprofondata in un non tempo. Il tempo non trascorre più. Guardo in continuazione l’orologio e le lancette sembrano immobili davanti a me, a me che non avevo mai tempo, che ero sempre alla ricerca di un tempo. Adesso non c’è differenza tra la mattina e la sera, il mondo è cambiato, le persone sono cambiate davanti a me, i loro volti. Mi sembra di non avere sensazioni mi sento come anestetizzata”.
E poi Anna: “Le ore non passano più. Ieri ho portato il piccolo alla visita di controllo, sorridevano tutti e mi facevano i complimenti per il mio bel bambino, ma nessuno mi ha chiesto niente. Mentre ero lì, il tempo che ho passato mi è sembrato tutto uguale. Io non vedo il mio bambino che cresce, mi sembra sempre uguale. Ora tutto è uguale. Il tempo non va avanti, ma tutti mi dicevano che lui era cresciuto e rapidamente (era nato sottopeso) ma io non riesco a stare dietro al tempo …”.

In queste donne, spesso, si sente che vivono l’accudimento del bambino da un lato come se fosse un lavoro sfinente e dall’altro come se fossero costantemente inadeguate ed incapaci. L’esame dei loro racconti consente di individuare forti spinte aggressive inconsce nei confronti del piccolo, che è arrivato a sconvolgere una routine di vita. Molte di loro dicono di sentirsi come in gabbia, e prendono le distanze affettive da questo piccolo, come difesa e blocco inibitorio; ogni affetto è bloccato, compresa l’aggressività, e il bambino diventa un estraneo. L’impossibilità di immedesimazione fa si che non si sviluppi quella capacità empatica che permette alla madre di comprendere i bisogni del piccolo.

Le ipotesi che si vanno formulando fanno costantemente ritornare all’idea di una madre che già durante la fase della gravidanza abbia negato il trasformarsi del suo corpo, abbia continuato a fare le cose di sempre, senza modificare il suo stile di vita fino al parto; oppure di una madre che durante la gravidanza abbia enfatizzato qualsiasi piccolo cambiamento anche fisico: in ogni modo all’idea di donne che non abbiano mai preso coscienza del loro corpo, del loro tempo interno, delle trasformazioni come ricerca di vita.

La situazione di queste donne ha profonde radici nei processi consci e inconsci che accompagnano la gravidanza ed il parto. Il puerperio è un momento di elaborazione del lutto: se per vari motivi questo non avviene, se la perdita del bambino ideale non è soppiantata dall’attaccamento al bambino reale, i toni depressivi dell’umore si potranno cronicizzare in stati sempre più depressivi.

Non appare facile rispondere alla domanda su cosa fare di fronte a una situazione di depressione post partum che vede oggi coinvolti più elementi che la caratterizzano.

È probabile che la difficoltà stia nel dovere ritornare ad occuparci della maternità non solo come uno stato sociale a cui ridare importanza e rilevanza, ma anche tenendo conto in modo scientifico di tutti gli aspetti nuovi che sono entrati nella vita delle donne e che hanno determinato negli anni un pensiero nuovo rispetto alla maternità stessa.
Cosa fare di fronte ad una società che ha aperto le porte al lavoro femminile sospingendo però le donne verso un ruolo sempre più maschile e quindi allontanandole dal normale desiderio di maternità?

Forse possiamo provare a lavorare dando uno spazio e una dimensione diversa al tempo che precede il parto. Possiamo provare a ristrutturare il nostro lavoro ed inserire da subito l’idea dell’aiuto, dell’incontro con il partner e della sua importanza prima e dopo il parto. Possiamo provare a togliere quell’aurea di super efficienza che caratterizza la modalità del lavoro attuale degli operatori per costruire una relazione basata di più sulla confidenza e sulla fiducia. Possiamo provare a rallentare i tempi.

Se nel nostro cammino di accompagnamento delle donne al parto riuscissimo a fare percepire l’importanza della scoperta di un tempo interiore che coincide con la crescita del piccolo dentro di sé, al fine di poterle accompagnare verso una visione meno angosciante di un tempo che cambierà d’improvviso la loro vita, talvolta travolgendole, allora con buone probabilità avremmo avviato un buon percorso di aiuto per il superamento della depressione post partum.

Molti definiscono la depressione post partum una malattia biopsicosociale, nel senso che accomuna in sé aspetti bio-chimici, aspetti psicologici e aspetti sociali. È questa natura così ibrida, questo intreccio così complesso che fa tanto discutere e induce a cercare nuove strade per un efficace lavoro sulla depressione.

Il tema del tempo e della sua definizione in termini scientifici – quando diventa il tempo che uccide qualsiasi speranza, quando è un tempo interiore mai o poco analizzato che ha fatto fare scelte sempre di corsa, quando ancora è un tempo sociale diventato usanza (i figli si fanno solo dopo avere fatto “carriera”) – mi è sembrato un tema interessante da proporvi come invito alla discussione e alla riflessione.

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