Un’educatrice da educare

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Oggi voglio portarvi con me in un posto speciale, un mondo piccolo piccolo, ma grande grande. La scuola, ahimé, non la posso descrivere con gli occhi di un bambino: la mia poca esperienza non mi consente ancora una tale empatia.
Posso provare a raccontarvela con i miei occhi, quelli di una mamma che mai avrebbe immaginato di finire in un posto così: un posto affollato, rumoroso, un posto dove tutte le emozioni sono amplificate.
Vi racconto tutte le cose che mi hanno sempre colpita, soprattutto all’inizio, perché credo che ognuna di noi si sia chiesta almeno qualche volta cosa facciano i nostri figli a scuola.

La mia giornata inizia da mamma, e inizia con l’imperativo del mio piccolo tiranno: “latte!”. E mentre guardo con gli occhi socchiusi il biberon girare nel microonde lo sento sgambettare giù dal lettino e correre nel lettone a prendersi la sua dose di coccole.
Ci vestiamo tutti e tre, ma il puffo sale in macchina con la mamma: musica, occhiali da sole e via! La strada è pochissima ma in qualche occasione per evitare il traffico sono passata davanti alla Stazione e all’Istituto Magistrale: mi ricordano il passato, quando non avrei mai immaginato che avrei fatto la maestra.

Scendiamo dall’auto e subito incrociamo una mamma che sta per lasciare a scuola il suo bimbo.
Mi vede scendere con il puffetto e mi guarda basita: “Ma hai un figlio?”. Dentro di me penso che è abbastanza evidente, ma sorrido perché se non si sono ancora accorti che Stefano è mio figlio allora vuol dire che la mia paura più grossa è scongiurata: ho saputo essere abbastanza professionale in tutti questi mesi!
Entriamo nella scuola.
Mio figlio si lancia nel cosiddetto “angolo morbido” ancora con il giaccone e non mi degna più di uno sguardo. La mia collega, che lo accoglie, mi strizza l’occhio e inizia a spogliarlo.
Mentre mi avvicino al cancello delle scale, ancora con il giaccone e le scarpe da cambiare, mi sento tirare da dietro. È Giulia: “Maestraaa!”. Oddio ce l’ha proprio con me. Non mi ci sono ancora abituata. “Mirco mi tira i capelli!!!!”. Mi giro, lo guardo, trattengo le risate. “Non sono stato io!”. Gli manca solo il fiocchetto tra le unghie ma l’aria colpevole la dice lunga.
Lo guardo con aria inquisitoria ma non dico nulla, tanto so che uno dei nomi più usati durante la giornata, con varie intonazioni, sarà proprio il suo.
Mi cambio le scarpe e scendo di nuovo.
Nel grande salone si sta preparando per la merenda. Maria e Roberta, quando arrivo io a controllare i bimbi, si occupano di segnare le presenze e accogliere gli ultimi genitori.
I genitori: la “razza più ambigua” nell’universo scuola. La croce di tutte le educatrici, la specie più varia eppure coesa che possa capitare tra quelle mura eppure, cosa raccapricciante, io sono una di loro.
Ci sono quelli che arrivano, spogliano il bimbo ed escono facendo appena un cenno di saluto, quelli che non vorrebbero mai andarsene, quelli che devono dare sette o otto ultimi bacini, quelli che hanno una cosa importante da dire alle insegnanti, quelli che si fermano a commentare il menù del giorno… potrei andare avanti per ore e non ne avrei descritta che una piccola parte.
Mi chiedo sempre di che tipo sono io e ancora non mi sono censita!

Restiamo finalmente “soli”. Noi e loro.
Nido e materna, 50 e passa bimbi che aspettano mela e biscotto, quasi tutti seduti sulle panchine colorate intorno all’entrata del salone.
C’è Mattia, poco più di un anno, appeso al carrello che cerca di guadagnarsi lo spazio che gli manca alla scatola dei biscotti. C’è il gruppetto delle squinzie che fa a gara a chi ha più brillantini sulla nuova maglietta delle bratz, matz, winx e trix.
Passo con il contenitore della mela e li guardo tutti: è incredibile come poi ti ricordi veramente tutto, perfino di chi fosse quella felpa trovata a terra ore dopo, o cosa ci fosse nel piatto di ognuno e cosa sia stato mangiato. All’inizio quando vedevo le mie colleghe compilare i fogli dei pasti del nido sorridevo, pensando: “Chissà quanti anni servono per ricordare cosa mangia ogni singolo bimbo?”, eppure adesso so che non serve un particolare sforzo: lo ricordi e basta.

Buongiorno dottore!” dico ai più grandini mettendo loro in mano uno spicchio di mela. Ridono. Caspita, quando ridono ti senti il Dio dello humour. Il problema è che per farli ridere devi dire o fare delle cose del tutto sceme, tipo far finta di piangere, fare le facce buffe, camminare come un’idiota, ma la cosa che funziona sempre è “far finta di“.
Fai finta di avere un ragno nella maglietta e ridono un quarto d’ora.
Mentre io brucio quelle due o trecento calorie con il ragno nella maglietta c’è sempre Mirco che strapazza i più piccini. Ha rovesciato il bicchiere dell’acqua e ora ci sta facendo nuotare la mini car Saetta McQueen.
Quando però inizia a sopraffarli anche fisicamente comincio ad alzare la voce.
Con lui s’è provato di tutto. Dalle urla, alle punizioni, alle responsabilizzazioni, nulla di nulla. È così e così ce lo teniamo, possiamo solo non mollare la presa: le regole sono regole, ahimè, anche lui deve imparare a rispettarle.

Questa è la cosa più avvilente. Se lo scopo della scuola è quello di inserirsi in un processo di educazione che viene da più agenti, in alcuni casi non si può fare altro che prendere atto di essere gli unici a partecipare a questo processo o di esserne esclusi. Per alcuni bambini la famiglia si arroga il diritto di unico dispensatore di regole e principi e la scuola è solo un parcheggio, per altri genitori invece, paradossalmente, la scuola è l’ancora di salvezza che permette loro di non porsi nessun quesito su come educare i propri figli. Vie di mezzo e sfumature sono tantissime ma quando ti scontri con queste realtà ti senti impotente.
Quando Mirco tira i capelli all’ennesima bambina perdo la pazienza e lo metto a sedere finché non si calma. Quando però realizzo che Mirco è anche l’unico che non si accorge della “diversità” del suo compagno e ci gioca comunicando come fa lui mi chiedo cosa gli passi in testa: poco prima Mr. Hyde, adesso Dr. Jekill, o forse sono io che non ho colto ancora tutte le sfumature?

Finiti i vari laboratori, in base alla programmazione c’è un altro momento topico: dopo le mille e una avventure in bagno (al grido di “forza bambini… pipì, mani e bavaglino!” sperando di dirle sempre nell’ordine giusto) entriamo in sala da pranzo.
Il nido sta finendo il suo pasto. Butto un occhio a mio figlio. Con la testa appoggiata a una mano e la forchetta nell’altra sta fagocitando i resti del pranzo. Non mi guarda nemmeno e un po’ mi spiace. Una volta l’ho beccato imboccare una bimba più piccola, non so cosa mi abbia trattenuto dall’andare da lui a sbaciucchiarlo.

Con la collega li mettiamo a tavola. In sei per tavolo stando attenti a una serie di fattori: mangioni con schizzinosi, giusto equilibrio di 3-4-5 anni per tavolo, amiconi separati ma non troppo, allergici in vista.
Mentre porzioni il cibo sui piatti dalla grande pentolona sul carrello sembra che i tuoi occhi si camaleontizzino: uno guarda il destinatario e l’altro la porzione: “Questo è Patrizio? Ah allora tanto! Questa Cristina? Solo brodo. Edoardo? Che moccolo!”. Fuori dal cinturone la cartuccia più preziosa, l’amico di tutte le insegnanti che vogliono usare i pantaloni almeno due giorni di fila (eh certo dove credete che vengano a pulirselo il naso i nostri figli se non ce ne accorgiamo in tempo?): il fazzoletto di carta!

Quando, alla fine, la cuoca ti fa fretta perché poi è il turno della mensa del doposcuola e deve preparare, mentre i bimbi vogliono bis e tris e tu stai raccogliendo i piatti con le mani appiccicaticce e il pranzo che sta tutto tra l’esofago e il premolare superiore sinistro, ti senti prendere la mano: è Mariano che con aria seria, come se ti dovesse confessare un omicidio mi dice: “Maestra lo sai che a casa ho tuuuuutta l’isola dei gormiti con la nave dei pirati e io faccio finta che Batman è il loro nemico e li sconfigge tutti?”. Un giorno mentre mi diceva una cosa di questo tipo mi ha pure sputato un riso allo zafferano sulla maglietta. Penso di non aver mai riso tanto.

A loro non interessa se hai 15 piatti in mano e per parlargli devi curvarti in posizione yoga tipo “guru che medita” e nemmeno se hai la maglietta con le chiazze di pomodoro e i pantaloni con il moccolo.  Se li ascolti o strizzi l’occhio, sei bellissima. Purtroppo, tempi e ritmi sono stretti, i bambini sono tanti e anche il dedicare un’attenzione particolare a volte è un lusso che non puoi concedere a tutti.

Il pomeriggio, dopo l’agognata pausa pranzo, seguo i bambini più grandi al doposcuola, ma in più di qualche occasione mi è capitato di assistere alla fase della nanna.
A parte il fatto che avrei voluto mettermi io in quei lettini con le buffe coperte colorate e tutti i loro peluche, è sorprendente come possano dormire insieme fino a 20 bambini quando a casa anche solo lo squillo del telefono ne sveglierebbe uno solo.
Eppure è così. Si tolgono le scarpe quasi tutti da soli, ti chiedono il bacino (i più grandi, per non sembrare piccini, vengono a dartelo loro), si infilano nelle brandine colorate e dopo pochi minuti senti il colpo di tosse, i respiri regolari e pesanti, forse senti Mirco che tenta di svegliare il vicino di brandina e allora provi a portartelo sul divanetto della maestra (qualche lusso pure a noi vah!) finché non inizia a sbadigliare… perdi la cognizione del tempo, fino a che la luce che entra dalle fessure delle persiane non inizia ad attenuarsi o fino a che non senti i bambini dei 5 anni che tornano dall’aula di pre-requisiti.
La giornata sta per finire.
La loro, perché la mia comprende ancora due ore: merenda, pastrocchiamenti vari, poi gioco libero in salone. Qui le età si mescolano meravigliosamente. I pochi rimasti dal doposcuola convivono più o meno tranquillamente con i pochi supersititi della Scuola dell’Infanzia o del Nido (che sono solo due, uno dei quali è mio figlio).

Alle 18 ci prepariamo a tornare a casa. Finalmente soli.
La scuola è silenziosa. C’è solo Luana che ripone lo spazzolone nel sottoscala.
Stefano corre a nascondersi per tutta la scuola. Io non ho più voglia di fare la maestra, sono esausta. E così torno a essere mamma, stanca, irritabile, ma tutta sua. Mentre cucino mi faccio raccontare cos’ha fatto a scuola, anche perché in realtà non ci siamo visti molto. Sono felice perché mentre ripiego e appendo il giaccone mi chiede: “Mamma andiamo a scuola?”. Lui ci tornerebbe, io lo guardo un po’ sconvolta… Vorrei dirgli: “Ma sei fuori?”, ma gli rispondo: “Domani amore!”.

E così mi convinco ogni giorno di più che l’essere mamma aiuta il mio essere educatrice e che il mio essere educatrice arricchisce il mio essere mamma.

La cosa che più mi sorprende, quando la mattina entro nel piccolo mondo fatto di piccoli visi e piccoli cuori, è come possa essere così ironica la vita: sono una donna che programmerebbe anche il numero di sbadigli giornalieri e mi trovo a ricevere le più grosse soddisfazioni della mia vita in due cose che non avevo vagamente nemmeno sognato potessero essere così appaganti e indissolubilmente legate: mio figlio e il mio lavoro.

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