La nascita di Mena

Il primo maggio avevo portato il mio pancione a spasso per il paese.
Al “Quanto manca?” rispondevo fiera: “Questione di giorni”, ignorando fossero invece “questione” di ore.

baby, belly, body

È una notte come le altre.
Carla si sveglia piangendo.
Ha fatto un brutto sogno. Mi alzo, la porto nel lettone e vado al bagno.
Guardo l’orologio, sono le due.
Mi rimetto a letto con alcuni “movimenti intestinali”.
Mi rialzo e rivado in bagno. Sono le due e venti.
Gianni si sveglia: “Che facciamo, dobbiamo andare a Maddaloni?”.
“Non lo so”.

“Se dobbiamo andare, metti a fare il caffè”.

Ho pensato che avrei voluto essere una di quelle donnette che si sposa a 20 anni e concepisce il primo figlio la prima notte di nozze e che passa la gravidanza nelle famiglie matriarcali, coccolata e venerata come nelle tribù dell’America del sud.
Quelle “donnette” che al primo dolore corrono in ospedale accompagnate da madre, sorella, suocera, comare e marito e che poi se ne tornano a casa senza doglie e senza figlio, ma legittimate nelle loro paure.
A me no, questo non era concesso.
Dovendo andare in clinica era per partorire: un po’ perché sono fatta male io, un po’ perché c’era Carla e dovevo ridurre alla massa critica il disagio legato a questo parto.

Fortuna che c’era lui, Gianni: il vero protagonista di tutta questa buffa e sacra faccenda.

“Dai metti a fare il caffè. Vado in bagno a cagare e poi vediamo”.
Non ero convinta, ma mi sono lasciata guidare dalla sua ovattata flemma.
MI faceva ridere con le sue battute stupide e l’ho assecondato, quella notte mi era particolarmente simpatico.
Non avevo dolori particolari, ma avevo freddo. Uno stranissimo freddo, lo stesso strano freddo che avevo la notte del quattro dicembre, quando il sacco di Carla si infranse a riva.

Faccio il caffè, come se fosse un lunedì mattina come tanti.
Mi vesto con calma, preparo la colazione per Carla, senza che ancora avessi deciso se andare o no.
“Dai, se ci rimandano indietro ti regalo un tapiro, intanto chiama Maria”.

Guardo l’orologio. Sono le 2.40. Chiamo mia cugina Maria. Prontissima. In sette minuti era a casa mia.

Gianni aveva preso il suo caffè,  con sigarettina inclusa.
Aveva fatto barba e doccia. Erano le tre ed era pronto come per andare a lavorare.
“Dai, dai, facciamoci una foto” dice.

Ci facciamo l’ultima foto con Mena dentro.
Siamo sorridenti, ignari, allegri. Anzi no: contenti.

Saliamo in macchina. Ancora non sono convintissima di tutto quel film che stavamo costruendo.
Arriva la prima contrazione. Secca. Netta. Dolorosa.
Guardo l’orologio del quadro elettrico: segna le tre e venti, ma va quindici minuti avanti (queste sono le fisse di mio marito, tutti i suoi orologi viaggiano con 15 minuti di anticipo per non arrivare mai in ritardo… non ho mai capito il perché).
Capisco che eravamo sulla strada giusta.
Arriva la seconda. Uguale. Guardiamo l’orologio. Segna le 3 e 25.
“Sarà un caso”, pensiamo. Speriamo.
Tra la prima e la seconda, così come per tutto il mio breve travaglio, la pace completa.
Guardiamo l’orologio sperando non confermi quello che entrambi inziavamo a temere.
Arriva la terza. Dolorosissima. i led scintillanti nella notte segnano le 3 e 25.
Inizio ad aver paura.
“Gianni, quanto manca?”, e lui con la sua solita flemma: “Tre contrazioni e siamo arrivati”.

Arriviamo in 22 minuti (con Carla ne avevamo impiegati quasi il triplo!); di turno c’è Marilina Paccone, una giovane ginecologa che conosciamo.
Marilina mi visita: il sacco è tesissimo. In sala travaglio. Non ho mai saputo di quanto
fossi aperta.
Arrrivo in sala travaglio. mi spoglio con calma, mi sdraio, vado al bagno.
Poi si ripete il momento magico di allora, la vigilatrice che mi chiede il cambio della piccola.
Lo prendo, è un alternarsi di dolori e di emozioni vecchie e nuove, di fotogrammi che si sovrappongono, di paure per un parto oramai imminente.
Mi mettono un cardiotografo gemellare.
Ogni tanto moriva il gemello fantasma di mena, quel suono d’allarme era abbastanza funesto… sotto il tono di cessato battito però, c’era il cuoricino di Mena.
Sono le 4 meno dieci.
Arrivano Marilina e Gianni, l’ostetrica e l’infermiera. La squadra era al completo, mancava solo il pezzo forte, il ginemummia che era stato già allertato, lui vive in clinica, non scherzo e vi accede tramite un cancello separatore.

Marilina guarda fuori dalla finestra:
“Ora sentiremo il cancello aprirsi”.

Ero in un libro di Italo Calvino, giuro.
Si sente la cerniera povera d’olio del cancello.
Sta arrivando.
Sale, è in ordine e lucido come sempre. Non ha la cravatta, ma una camicia verde sotto la sua giacca a quadri. Pettinato, ordinato, sveglio. Come dal 1929, sua madre lo avrà già partorito così.
Sono le quattro.
Mi visita, mi rompe il sacco senza dire una parola.
Sento il calore delle acque di Amnios, ancora fotogrammi che si sovrappongono, come quelli di due anni prima.

Andiamo in sala parto.

“No, non sono pronta, non ho ancora voglia di spingere” (con Carla l’avevo).

Lui non risponde, Gianni mi sollecita a fare in fretta, era chiaro – a loro-  che non c’era tempo nemmeno per spingere.

Aspetto finisca una nuova contrazione e con i miei piedi arrivo in sala parto.
Ad attendermi c’è lui, sulla soglia, come un maître.
Si infila il suo camice da macellaio (ancora fotogrammi del 4 dicembre) e intanto mi accorgo che la sala parto è tutta nuova.
High tech. Bellissima.
“Dottore è cambiato tutto… tranne il suo guanciale”.

Scoppiano a ridere, anche lui mi sorride.
Ma c’era poco da ridere.
Vedo Gianni indossare il suo camice verde.
Sono tutti pronti ai posti di comando.
Io sono stesa, con la paura addosso, stavo per iniziare a perdere lucidità.
Gianni alla mia sinistra a bloccarmi la mano e il bacino e prestarmi la sua carne per
i miei morsi di dolore.
L’infermiera e l’ostetrica alla mia destra.
Marilina e Ginemummia nel comitato d’accoglienza per mia figlia.
Ho urlato. Forte.
Una prima spinta dolorosissima ha portato la testa di Mena verso la riva.
Solo i capelli erano affacciati verso il mondo.
Ho urlato, imprecato, detto le mie solite cazzate contro chi non capiva il mio dolore.
“Dottore mi aiuti, la prego, Gianni, Marilina… fate qualcosa”.
Niente, altri fotogrammi che si sovrapponevano. La platea è un filtro passalamento. Nessuno ti ascolta, nessuno ti crede. Sei lì e “devi COLLABORARE”.
Collaborare? Ora ci vorrebbe Silviettorum a dirmi la genesi di questo verbo. Scommetto però che CO-laborare è una presa per i fondelli.
Il panico da parto, almeno per me, risiede proprio nella consapevolezza che non c’è nessuna co-laborazione.
Tutto dipende da te. Tutto dipendeva da me.
Ho invocato l’aiuto di mia madre (che nel frattempo era in viaggio verso la clinica, ma non sarebbe mai potuta arrivare per tempo, con tutta la buona volontà!) e ho spinto forte, mentre sentivo di spaccarmi in mille pezzi.
Mena è uscita fuori d’un colpo, tanto che il ginemummia ha emesso un suono (L’UNICO) all’ostetrica: “PRENDETELA!”.
È approdata in grande stile a riva, con irruenza, la stessa irruenza del suo pianto deciso nella notte.
Guardo l’orologio.
Sono solo le 4 e un quarto.
Era finita.
Era iniziata.
L’infermiera me l’ha portata avvolta nel suo telo verde.
Ho pianto come non mai: era viva, era sana, era piccola, era forte, era mia.

Da quel momento si sono alternate emozioni antiche e nuove che resteranno per sempre incatenate al mio passato e al mio futuro.
Mia madre che torna dal nido trasportando trionfante e piangente la culla di plexiglass con dentro sua nipote.
Gianni che la guarda e ride di un amore perso.
Tutta la flemma e la comicità che si coglie in un amore consapevole per lei, per noi tutte.
La famiglia che si stringe attorno a una nuova vita e sua sorella, piccola e grande Carla che la guarda e ride e la chiama forte:
“MENA”.

“…non sono mai stato tanto attaccato alla vita”.

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