Chiacchierando con Alice Banfi

Alice è una Madre.
Alice è una donna che si mette in discussione.
Alice è un’anima che ha pianto a lungo.
Alice è una forza della natura. Alice è riscatto, spirito di sopravvivenza, libertà. Alice è anche Ada.
E questa è la sua storia, raccontata fra di noi.
intervista alice banfi
Paola M.
Iniziamo con Alice bambina?
Raccontaci un po’ di te, ora che sei madre, come ti vedi da piccina, guardandoti indietro.
Alice
Mi ricordo di me con grande tenerezza.

Ero una bambina molto affettiva con un enorme bisogno di contatto fisico. Con un profondo sentimento religioso anche se cresciuta in una famiglia tutta di atei. Certamente avevo una sensibilità superiore alla media.

Di me ricordo soprattutto l’amore totale per mio padre, la mia solitudine interiore, la paura di stare da sola.

E poi la sensazione che il mondo fosse ingiusto, ecco! Non capivo perché il mondo, anche attorno a me, a volte, fosse tanto crudele. Gli adulti spesso non danno spiegazioni ai bambini così loro se le devono trovare da soli, io pensavo fosse tutto una grande ingiustizia.

Questo sentimento credo sia diventato predominante dopo i quattro anni, subito dopo aver subito un abuso sessuale da un uomo in casa di mio padre. Dopo quella violazione totale, nulla poteva sembrarmi giusto. Io mi sentivo sbagliata, brutta, grassa e una bambina normopeso che si sente grassa, sta chiaramente male. Poi ero anche molto agitata, iper attiva, un po’ teppista, coinvolgente. I bambini volevano sempre stare con me perché mi inventavo di tutto, avevo una grande fantasia.

Una volta ho smontato un tostapane e l’ho trasformato in una macchina del tempo, funzionante chiaramente! Ho ricordi bellissimi di amicizie dell’infanzia, giochi e scherzi. Spesso facevo “il capo banda”, ero carismatica e la mia mancanza di spirito auto conservativo mi faceva apparire agli occhi degli altri bambini come super coraggiosa.

Ero estremamente spericolata.

Ricordo una vacanza con il WWF, avevo dieci anni, sfidavo gli atri a buttarsi nelle ortiche, ma finiva che lo facevo solo io, guadagnandomi il titolo di capo assoluto.

Questo aspetto da dura mi serviva, era una maschera che ho portato per anni, una corazza protettiva e ammetto che a volte la indosso ancora. Mia figlia mi somiglia tantissimo di viso ma è una bambina sospettosa, che non sta facilmente in braccio ad altri e che non regala sorrisi al primo che passa. Io ero l’opposto, stavo con tutti, sorridevo a tutti e mi fidavo di tutti, quando questa fiducia è stata tradita il mio mondo interiore si è capovolto.

 

Paola M.

Mi fai tenerezza Alice e nello stesso tempo mi ricordi un mio mito dell’infanzia, Pippi calzelunghe.

Fatto questo inciso, torniamo a te.

A quattro anni un abuso: lo hai detto ai tuoi genitori o l’hai ricordato successivamente? Loro si sono accorti che eri una bambina “particolare”? Con magari qualche necessità in più di essere seguita da vicino?
Alice
Eh! L’adulto incapace e anche l’adulto difficile.
Non ho parlato dell’abuso ai miei genitori fino ai vent’anni circa.
Chi si approfitta di un bambino sa che può fare leva facilmente sulla sua paura. Io quella volta venni minacciata dalla donna che mi aveva attirata in una stanza dove lei e un uomo stavano facendo del sesso. Quella donna, mi intimorì, mi afferrò il polso e mi disse: “Se lo dici alla tua mamma ti uccido”.

Questo basta e avanza per terrorizzare un bambino. Io ricordo che dopo quella frase, mi allontanai, scesi le scale e scelsi di crearmi il buio in testa. Detto così non so se si capisce ma non saprei descriverlo altrimenti.

Ho rimosso volontariamente l’accaduto, mi son detta: “Alice, spegni la luce” ed è rimasta spenta per vent’anni.

Il problema è che un bambino che subisce un abuso difficilmente si ribella e difficilmente viene costretto con la violenza fisica, ma viene circuito e spaventato con altri mezzi.
Così è facile che pensi di aver acconsentito, partecipato.
È un casino, perché il senso di colpa più difficile da superare è proprio questo. Questa assurda convinzione di aver partecipato, di essere stati consenzienti, ecco un motivo in più per mantenere il segreto.
I miei sapevano benissimo che ero particolare, ma reagivano in maniera diversa senza essere d’accordo su come approcciarsi a me.

Da una parte mio padre: super permissivo, coccolone, distratto.

Dall’altra mia madre e suo marito: piuttosto rigidi, ansiosi, iper protettivi. Praticamente se da una parte un mio comportamento veniva sottovalutato o ignorato, dall’altra veniva immediatamente sottolineato e punito.

Questa cosa mi creava una gran confusione. Genitori separati mi stava anche bene, ma li avrei voluti d’accordo su di me. E mettiamoci tutti in testa che i bisogni dei figli vengono prima dei nostri, sempre se non preferiamo pagarne le conseguenze.

Il secondo abuso che ho subito l’ho ricordato due anni dopo il primo (a 22 anni circa).

I miei aggressori erano due ragazzine di forse 15 anni (sottolineo l’età perché non si può mai sapere chi può costituire il pericolo per un bambino), trovo orripilante che si trattasse di due giovanissime e femmine: si dovrebbe fare molta attenzione prima di lasciare un bambino piccolo con dei ragazzini o con persone poco conosciute

Una cosa che ci terrei a dire ai genitori: guardate sempre i disegni dei vostri figli e osservate se si evolvono in modo strano, perché guardando i miei disegni era lampante il mio stato d’animo.

L’ultimo anno d’asilo sono passata da disegni accurati a fare grossi scarabocchi marroni, ne facevo decine e decine. Il quaderno di prima elementare parte con disegni colorati e allegri e finisce con disegni non completi o in bianco e nero. I personaggi che disegnavo erano caratterizzati da connotazioni sessuali, grossi seni con capezzoli, o figure nude con degli abbozzi di genitali. Un adulto può non capire, provare tenerezza, non bisogna dare per scontato di essere in grado di accorgersene, quindi è fondamentale l’osservazione.

I miei erano bei disegni, a vederli oggi fanno simpatia: principesse tutte belle vestite dalla testa ai piedi ma con i capezzoli al vento, disegnati come fossero ciliegie o prìncipi a gambe aperte che fanno pipì. Osservandoli superficialmente potrebbero sembrare innocui (e lo avrebbero potuto anche essere, ma per me non fu così).

È fondamentale indagare, mai allarmarsi ma nemmeno sottovalutare, e imparare a leggerci dentro, per capire di più i bambini.

 

Paola M.

Quindi, tornando ai tuoi genitori pensi che siano stati distratti? Presi da altro? O non avevano gli strumenti per capirti?

Penso alle mamme di oggi, prendo per esempio noi che stiamo sul forum che per ogni dubbio, anche minimo, passiamo insieme giornate a ragionarci. È uno strumento non indifferente questo per capire i nostri figli, per testare la “normalità”, non credi?

Ho usato volutamente la parola “normalità” perché tu usi il termine “matta” molto simpaticamente, ma quand’è che quelli attorno a te, gli insegnanti, i genitori, i famigliari hanno capito che qualcosa non andava per il verso giusto e hanno pensato di rivolgersi a un medico?
Per capirci, quando ha inizio il tuo personale “calvario” di persona “abusata” anche dalla medicina?

 

Alice

I miei genitori. Mio padre fu distratto di sicuro. Amorevole ma distratto. Lui giocava a carte al piano di sotto quando io subii l’abuso e quando gioca a carte va in trance. Mio padre ha anche sottovalutato sempre tutto. Per lui non c’erano mai problemi, nemmeno quando uscivo con i punkabbestia e tornavo dopo due giorni stracotta.

Mia madre l’esatto contrario. Lei c’era poco perché lavorava e spesso non sapeva darmi risposte. Era molto attenta e anche rigida ma poi si mise in mezzo suo marito a confondermi ancora di più le idee. Lui voleva solo fare il padre, però io lo avvertivo così diverso da me, un uomo schematico e duro. A casa di mio padre quando andavo a letto (tardi) lui mi leggeva una storia e dormivo nel lettone con lui. Da mia madre erano lotte e quando non ne poteva più chiamava il marito, che era come chiamare l’uomo nero e io correvo a letto spaventata: lui entrava nella stanza, spegneva la luce, chiudeva le tapparelle e fine.

Non c’era mai via di mezzo né da una parte né dall’altra.

Ammetto che ai tempi preferivo i modi di mio padre, però qualche regola in più non avrebbe guastato, per regole intendo quelle educative e non coercitive: come concordare i tempi e i modi delle uscite serali, avere dei compiti e portarli a termine, stabilire cosa può o non può fare un adolescente, non certo quelle di mandarmi a letto senza storia e con le tapparelle blindate senza una lucetta.

Mia madre e suo marito andavano da uno psicologo già quando ero molto piccola, forse avevo sei anni, per capire come approcciarsi a me.

Io avevo numerosi tic facciali, mi grattavo nervosamente, facevo smorfie, mi veniva la tosse quando ero a disagio (soprattutto a tavola con mia madre e suo marito).

Non stavo mai attenta a scuola, ero agitatissima, tagliavo i vestiti miei e delle mie compagne. Ciononostante, il primo psicologo l’ho visto che avevo 14 anni e la cosa mi faceva incazzare. Odiavo parlargli di me.

Dai risultati di test e delle sedute era venuto fuori una “personalità franante”. Debbo ammettere che lui non era un cattivo psicologo, ero io che non ci volevo andare e credo sia abbastanza normale a quell’età.

Mia madre mi veniva a prendere a scuola anche al liceo, era onnipresente e lo psicologo mi sembrava una spia mandata per conto suo a scavare i miei sentimenti. Alle medie scoppiò uno dei nostri primi scontri pesanti: mamma lesse il mio diario e scoprì che avevo già fatto esperienze sessuali (petting ridicolo direi) e me lo venne a dire, procurando il mio imbarazzo e la mia rabbia: credo di averla odiata.

Non ha saputo affrontare questa cosa, mi ha chiusa in casa, tolto il telefono e mentre pensava di punirmi per farmi ragionare ottenne una ribellione totale. Se ci penso ancora mi arrabbio, credo ci volesse più delicatezza, più dialogo. Al contrario mio padre pensava fossi una ragazzina sveglia e precoce e vedeva come positiva anche la mia “libertà” sessuale.

Poi c’è stata l’analisi. Se da una parte volevo andarci per capire, dall’altra la vivevo come un obbligo perché mia madre sosteneva che mi avrebbe lasciato in pace se ci fossi andata. Lei lo chiamava contratto, io ricatto, anche perché in pace non mi lasciò mai.

L’analisi fu un’esperienza durissima. Io non ero pronta, ero troppo piccola. Avrei avuto bisogno di altro, di una terapia comportamentale, di un altro contenitore, in qualche maniera l’avevo cercato in Comunione e Liberazione ma non ci stavo dentro, nel vero senso della parola, non fece per me. Col senno di poi forse la scuola steineriana avrebbe fatto al caso mio.

Dimenticavo un pezzo essenziale devo fare un passo indietro è essenziale che racconti un passaggio: l’autolesionismo. Non so quando iniziai, forse verso i cinque anni, forse prima, mi prendevo a pugni il naso per farlo sanguinare. Lo facevo solitamente di notte e poi inzuppavo tutto il cuscino di sangue. Mi addormentavo così.

Ma mia madre non poteva sapere, pensava avessi i capillari fragili e mi riempiva di pomate omeopatiche e cotone emostatico.

Ricordo che a volte lo facevo guardandomi allo specchio. La sensazione era la stessa che poi ho avuto nel tagliarmi, anni dopo. Onnipotenza, liberazione, calma. Controllare il dolore mi faceva sentire forte ed è pazzesco perché dopo la gravidanza questa cosa è cambiata. Durante il travaglio dovetti sforzarmi enormemente per controllare il dolore e pensare che per anni l’avevo fatto consapevolmente: in una situazione di “normalità” durante il travaglio non avrei voluto controllarmi, avrei desiderato lasciarmi andare come tutte le donne ma IO non potevo (o pensavo di non potermelo permettere) pensavo che cedere al dolore mi avrebbe compromesso, agli occhi dei medici, come madre di Ada. Ora tutto è diverso, non ho davvero voglia di sopportare più il dolore e questo cambiamento è stato sorprendente e immediato; addirittura ne ho paura, come tutti credo, e pensare che prima me lo andavo a cercare.

Il calvario dunque.

Dicevo della psicanalisi, per me è stata una tortura, mi ha sicuramente arricchita ma mi ha anche tirato fuori tutta la merda che avevo sotterrato da anni. Gli abusi infantili, la difficoltà dei rapporti con i mie famigliari, l’aborto. Quella è stata la goccia.

Io avevo una sessualità che era un caos. Facevo sesso per confermare me stessa e perché ero incapace a dire di no. Mi sentivo praticamente in dovere di ricambiare o ringraziare un ragazzo che magari era stato gentile con me e lo ricambiavo con il sesso. Dopo però stavo male, malissimo.

A 17 anni rimasi incinta, bevevo, prendevo droghe come ecstasi e acidi, e avevo già disturbi alimentari, anche se non erano plateali. I miei mi sono stati vicino, mi hanno detto che qualunque fosse stata la mia scelta mi avrebbero aiutata. Ci ho messo un po’ a decidermi per l’aborto.

All’inizio mi sembrava di non soffrirne ma in realtà ci ho messo davvero tanto ad elaborare il lutto, anni e anni. E da quel momento in poi ho desiderato avere un figlio. Ci ho anche provato con qualche fidanzato, ma ero imbottita di farmaci, sottopeso, praticamente era impossibile rimanessi incinta (per fortuna).

Tra i 19 e i 20 anni, il mio disturbo alimentare si aggravò. Ero un’alcolista e prendevo saltuariamente delle droghe. Mi tagliavo spesso le braccia sfuggendo i pronto soccorsi, che però a volte diventano inevitabili.

Se la situazione era grave, andavo in ospedale, mi facevo ricucire e poi scappavo. Mia madre si accorse subito che ero anoressica anche se in quel frangente ero sottopeso solo di qualche chilo, vi era appena passata mia sorella, quindi per lei riconoscere la malattia non fu difficile.

 

Paola M.

Vorrei tornare ancora un attimo all’educazione intesa come regole, mi pare di capire che tua madre fosse troppo severa e tuo padre troppo deregolato e che non si accordassero sulla linea da seguire (al di là delle loro inclinazioni).

Pensi che ti sia mancato un equilibrio in tal senso?
Cosa rimproveri loro e per cosa li ringrazi?

Alice

Mia madre era molto apprensiva, onnipresente, suo marito era severo e lui faceva le regole. La sensazione che mi dava mia madre era di togliermi l’aria. Desideravo scappare, la sua attenzione era soffocante da morire. Non avevo il controllo su niente che mi riguardasse. Lei è una donna forte e intelligente, solo che non lascia mai spazio agli altri.

I ricordi migliori sono di quando facevamo dei viaggetti io e lei da sole, a Venezia, Parigi, Gardaland, mi portava a mostre, musei, è una donna dotata di grande fantasia, mi ha fatto conoscere l’arte e la cultura. Però lei lavorava molto quindi non ho davvero altri ricordi sereni con lei. Ricordo le punizioni, le litigate, ricordo che piangevo la notte, che andavo a letto arrabbiatissima.

La vivevo male, era violenta nei suo interventi: tutto andava fatto solo ed esclusivamente nel modo in cui lo concepiva lei. Così spesso faceva le cose al posto mio, con me, ma come se io non ci fossi.

Opprimente era anche la sua velocità, lei fa tutto ad una velocità assurda pensando che quella sia la norma, pensando che tutti debbano essere così veloci. Io credo lei volesse essere più dolce ma non se lo permetteva perché oltre a lavorare tantissimo pensava proprio di danneggiarci. Mi ha confessato che ci avrebbe tenute nel lettone ma ai tempi era super tabù, era da egoisti, quindi passava la notte sveglia tra la mia camera e quella di mia sorella, e questa cosa mi fa un’immensa tenerezza.

Mio padre, è irresponsabile, totalmente, e ho detto tutto.

Quindi la differenza tra i due era abissale, mi ha destabilizzata. Era come andare in altalena. Mi rendevo conto che se da una parte c’erano delle regole dall’altra no, potevo farne a meno, quindi non le ho mai fatte mie, e questo è grave.

Era come se un genitore con i suoi gesti screditasse l’altro.

Anche se non litigavano mai in mia presenza e non parlavano mai male l’uno dell’altro, ai miei occhi risultavano poco credibili perché in continua antitesi. Bisogna avere una linea comune. Su questo non ho dubbi.

Allo stesso tempo mi hanno anche dato tanto. La possibilità di conoscere, la cultura, la creatività (mio madre), la dolcezza (mio padre), sono persone entrambe molto aperte, prive di pregiudizi e assolutamente non banali.

Devo molto a loro, anche la mia sensibilità, Poi mia madre è una donna con due palle così, una che dà ai figli tutto, che se decide di lottare non la ferma nessuno, e questo un po’ me lo ha trasmesso.

Da lei avrei voluto più dolcezza, magari un po’ più di calma, di stabilità.
Da mio padre più attenzione e presenza, più protezione.

Detto questo è ovvio che li amo molto e li ammiro.

 

Paola M.

Veniamo al calvario con la psichiatria: ricoveri, violenze psicologiche, contenzioni fisiche, fughe, successi e insuccessi. A proposito di tutto ciò hai scritto un libro: Tanto scappo lo stesso, romanzo di una matta (Ed. Stampa Alternativa, Pavona (Roma), maggio 2008; Libro, Pagg. 118, Prezzo € 10,00.)
Nelle pagine del libro fai la tua personale battaglia contro la psichiatria e narri della tua rinascita.
Sette anni: ce li racconti a grandi linee ma soprattutto ci parli della svolta?

 

Alice

Sono stata io a chiedere aiuto, anche se non era proprio aiuto vero quello che volevo. Dopo diete ferree e dimagrimenti esagerati, come la gran parte delle anoressiche ho iniziato ad avere crisi bulimiche, quindi una settimana mangiavo come un porco e l’altra digiunavo per perdere i chili presi, chiaramente mi era sfuggito il controllo del peso.

Bere mi disinibiva, quindi spesso mi ubriacavo e poi alle tre di notte svuotavo il frigo, cercavo di vomitare con poco successo e ingrassavo, così chiesi a mia madre di aiutarmi.

Mi portò da una psichiatra rinomata della scuola di Cassano (per me Cassano è un killer, ma ai tempi non sapevo chi fosse). Questa mi vide una sola volta, mi diagnosticò il disturbo borderline e mi prescrisse tre Prozac (massimo della dose) al giorno.
Veramente una mossa criminale, io avevo circa 18 anni. Il Prozac è un’anoressizzante e antidepressivo molto forte.

Mi aggravai, bevevo ancora di più per calmarmi, perché il Prozac a me dava ansia, sembravo fatta di cocaina. Dopo un po’, visto il peggioramento e visto che non ero affatto soddisfatta, decisi di rivolgermi a Ville Turro (ndr Centro Disturbi del Comportamento Alimentare, S.Raffaele – Milano). Altro psichiatra (famoso) altro giro. Avrebbero dovuto consigliarmi subito la comunità, ma sono stati lì a curare i sintomi.

Facevo gruppi e day hospital, sia per i disturbi alimentari, sia per i problemi con l’alcool. Mi visitò anche un’internista diagnosticandomi un’epatite alcolica. Fui ricoverata nel reparto alcolisti per la disintossicazione ed ebbi tutti i sintomi dell’astinenza, tre settimane di ricovero e poi ancora day hospital.

Riuscivo a non bere buttandomi nel digiuno e facendo esercizio fisico tutto il giorno. Poi, frequentando altre ragazze con DCA, imparai a vomitare. Controllavo il peso anche mangiando, anzi, dimagrivo.

Così altro ricovero per bulimia di tre settimane, altri day hospital, arrivai al limite di 34 chili con carenza grave di sali minerali. Mi sottoposero a una flebo al giorno di potassio per alzare il livello nel sangue ma il giorno seguente, dopo la notte passata a vomitare, stavo sempre peggio di prima. Non avevo più vene, stavo malissimo ed ero seriamente depressa, piangevo di continuo. Nello stesso tempo l’utilizzo continuo del Prozac per la depressione peggiorava il mio stato di anoressica, perché se da una parte sarebbe potuto essere utile a migliorarmi dal punto di vista psicologico dall’altra, essendo anche un anoressizzante, mi aiutava a non nutrirmi e peggiorare così la mia situazione fisica.

Attendevo il ricovero ma non c’era mai posto. Ville Turro non era preparata alle emergenze ma vivaddio arrivò anche il mio giorno, mi salvarono in extremis, mi svegliai in un letto intontita con sondino naso gastrico e flebo al braccio.

Dovrei scrivere un altro libro per raccontare quel ricovero di tre mesi. C’è da dire che erano bravi decisamente, la dottoressa che mi seguiva era davvero molto, molto preparata e capace. Dopo le dimissioni continuai con altri day hospital che però non riuscirono a tenere a bada gli altri miei eccessi.

Arrivai quindi al ricovero d’emergenza: tutta tagliata, ubriaca fradicia, andai all’ospedale S. Raffaele, a cui fa capo Ville Turro. Mi dissero che non c’era posto senza spiegarmi che potevo rivolgermi altrove.

La cosa mi destabilizzò a tal punto che ebbi una reazione violenta e disperata: feci per rovesciare il tavolo dello psichiatra ma mia madre mi fermò, il medico mal interpretò il gesto e spinse mia madre lontana da me, io mal interpretai la sua reazione e gli diedi una testata diritta sul naso, entrò un gruppo di infermieri per immobilizzarmi, e praticamente li presi a schiaffi. Mia madre solo riuscì a calmarmi ma a seguito di questo episodio venni inviata nella “vera psichiatria“, all’Ospedale Niguarda di Milano, prima in pronto soccorso e poi in S.P.D.C. (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura).

Ecco qui è cominciato l’incubo.

Non che prima fosse facile, ma l’SPDC è l’inferno in terra.

Ho passato lì dentro tantissimo tempo. Ricoveri infiniti, quantità di farmaci dati a casaccio e in dosi che ammazzerebbero un cavallo, un susseguirsi dei più disparati effetti collaterali pesanti e sgradevoli: crampi, tremore, incontinenza, bava alla bocca, una condizione orrenda. Per altro con una forte resistenza mia mentale sui farmaci, così spesso ricorrevano alla contenzione meccanica.

Non esisteva la cura, avere cura, penso a queste parole, alla bellezza di queste parole.
Io ho cura di una pianta. Ci vuole amore, dedizione o la pianta morirà. Sembra un’ovvietà ma lì dentro era tutto all’incontrario.
Lo scopo non era riabilitarci ma renderci abbastanza moribondi da poterci gestire, solo che con me gli riuscì malissimo pure questo.

Dopo qualche anno ottenni con fatica di andare in una comunità psichiatrica riabilitativa, a Moncalieri (Torino). Ci passai ben due anni e mezzo, senza uscire mai, tranne per scappare, quindi spessissimo.

Debbo dire che erano tutti molto bravi, preparati e amorevoli. Solo che accadeva di dovermi ricoverare ancora in SPDC o in altra struttura similare, e così ho subito altri postacci del genere in giro per il Piemonte. Su cinque visitati uno solo era fuori dal normale: aveva le porte aperte! Oibò! Mentre gli altri andavano davvero al di là di ogni possibile immaginazione.

Mi chiedevi come se ne esce vivi.

Prima di tutto bisogna avere accanto un familiare capace di lottare e lottare per anni, senza mai arrendersi ne perdere la speranza e solitamente sono le madri.
Lo stesso famigliare deve essere in grado di muoversi tra burocrazie varie, essere capace di inventarsi strategie, fare pressioni. Diventa un lavoro, praticamente.

Solo così, forse, si possono trovare le strade giuste, sbagliando chiaramente ogni tanto. Tu “matto” non puoi fare molto se stai male, il tuo parere sulle cure non viene mai ascoltato, ogni cosa che dici è come se la dicesse la malattia, non vieni più considerato persona e i tuoi sentimenti sono sempre presi per sintomi.

Quindi l’unica cosa che puoi fare è sopravvivere nel modo che conosci. C’è chi sceglie di ribellarsi come ho fatto io e chi sceglie di “ubbidire”. In ogni caso è sopravvivenza, dipende solo dall’indole della persona. C’è chi per non essere contenuto al letto si dimena, morde, scalcia e chi invece preferisce sottomettersi, tacere. Solitamente sono di più quelli che scelgono la seconda opzione: accettano le ingiustizie e così sopravvivono.

In psichiatria molti muoiono, non ne parlano i giornali importanti, ma accade.

Muoiono suicidi, muoiono per i farmaci pesanti che assumono, muoiono ammazzati perché non sanno difendersi, muoiono anche legati al letto. Sono ormai non pochi i casi delle persone morte legate al letto, trombo embolia polmonare, la morte di Gesù.

Però si continua a legare e nessuno ne parla, nessuno sa o a nessuno interessa.

Io sono sopravvissuta anche per culo. Ho tentato il suicidio e fatto gesti autolesionistici plateali molte volte, sono stata in coma tre o quattro volte, insomma mi è anche andata bene. Però a lungo andare ci sarei riuscita, magari per sbaglio, un taglio un po’ più in la del solito, un’arteria più grossa.

Mentre io ero in ospedale mia madre lottava, faceva pressioni, cercava un posto per me. Ha trovato la comunità giusta e ha dovuto lottare perché l’ASL mi ci inviasse. La comunità era fuori regione e la regione non voleva sborsare soldi che non sarebbero mai rientrati. La strategia di mia madre fu il ricatto: o firmate o vi trovate l’Alice tutto l’anno in reparto. Così fu. Io ero sempre in reparto, non mi adeguavo, ero un forte elemento di disturbo, ero pericolosa perché cercavo di ammazzarmi un giorno sì e uno no, mi inventavo di tutto, portavo i coriandoli in ospedale e li sparpagliavo ovunque, non dormivo mai, mi ribellavo.

Per loro ero un grosso problema, se fossi morta lì dentro sarebbero stati immediatamente indagati, se crepavo un passo fuori da lì (dovevo essere chiaramente dimessa) l’avrebbero passata liscia. Quindi per loro il punto non era salvarmi la vita ma farmi morire fuori.

Ritornando a quanto rompevo io, mi ricordo di una volta (una delle tante) in cui mi avevano legata al letto, era notte, non riuscivo a slegarmi. Allora mi misi a cantare Alla fiera dell’Est, quando la finivo tutta aspettavo, sentivo dalla sala infermieri un sospiro di sollievo, allora ricominciavo a cantarla da capo, per ore e ore.

Mi fecero così posto in comunità, per esasperazione, credo.

In comunità, come dicevo, ci ho passato due anni e mezzo e mi sono anche divertita. Erano molto bravi, l’unico problema è che è una comunità troppo mista ed eterogenea, sia dal punto di vista dell’età dei pazienti (che vanno dai 18 ai 60 anni, molti maschi e poche donne) sia nel diverso grado di “gravità” delle patologie del singolo paziente: viene ricoverato sia il depresso grave sia colui che ha commesso crimini gravissimi e tutto ciò non rende sicuramente facile la permanenza lì.

Nel tempo che sono stata lì sono morti tre ragazzi, uno era il mio fidanzato, è stato terribile, e una giovanissima ragazza di 17 anni si è impiccata. Tremendo.

Ma la libertà comporta dei rischi, se l’avessero legata 24 su 24 forse non sarebbe morta, ma che vita è?

Io non ero l’unica a massacrarmi e rischiare la vita, e non sono l’unica ancora viva, in pochissimi sono effettivamente migliorati o guariti o hanno trovato una guarigione sociale, molti sono ancora in comunità, magari più leggera, magari no.
Altri vivono male, sia fuori che a casa, immersi fino al collo nei loro mostri.
Questo perché nella gran parte delle regioni d’Italia manca totalmente una rete di supporto esterna, fuori c’è il nulla totale.
Servizi che chiudono il fine settimana, davvero il deserto.

Io in teoria dovevo entrare in un altra comunità, ero qui al mare con mia madre aspettando si liberasse un posto ma alla fine abbiamo accantonato la cosa e siamo rimaste al mare.

Negli anni passati qua, ho avuto numerose ricadute e qualche ricovero tremendo, anche se breve, Pian piano ho trovato il mio equilibrio, ho capito che potevo rialzarmi appena cadevo, che non c’era bisogno me ne stessi spalmata a terra per mesi, così se stavo male, mi tagliavo, mi disperavo per un giorno e il giorno dopo ripartivo cercando di fare il meglio. Un grosso aiuto l’ho avuto incontrando persone impegnate nella lotta per la salute mentale, venendo riconosciuta per l’importanza delle mie testimonianze, accorgendomi di poter dare davvero un aiuto. Bellissimo è stato partecipare a convegni e seminari come relatore. Riconosciuta quindi come esperta, per esperienza diretta del disagio mentale.

Il passo più difficile per tutti credo sia quello di trovare una propria indipendenza, a me manca ancora un passettino e ce l’ho fatta. Fare il “bravo paziente” diventa quasi facile, ritornare nella vita reale, con tutte le responsabilità che ci sono, con la spaventosa routine, la paura del vuoto, della noia e anche della “normalità”, è difficile. Molti fanno il passo e poi tornano indietro, e poi lo rifanno e ritornano indietro, non è facile.

Poi ho scritto il libro, che pure mi è stato davvero utile. Ho cominciato a viaggiare per presentarlo, a conoscere luoghi e persone nuovi, e dopo mesi stressantissimi anche se belli di lavoro, di viaggi su è giù per i treni schifosi che ci ritroviamo in Italia, mi sono lasciata andare e sono rimasta incinta e come potevo non esserne felice? Era il mio desiderio più grande, ora sono ragazza madre e ne sono contentissima, non ho esitato un istante a volere la nascita di mia figlia. So che dovrò affrontare alcuni problemi, ma per ora mi godo la mia piccola pagnottella calda, Ada, che mi sta facendo fare quell’ultimo passetto che sarà poi l’inizio di tutto.

Non esiste una ricetta per stare bene, ognuno ha la sua strada, diversa da quella di ogni altro, da un certo momento in poi si deve avere la forza di scegliere cosa si vuole. Per chi soffre è più “facile” continuare a soffrire, perché cercare di stare bene cambiando rotta richiede una fatica immane. Per me era molto più facile ammazzarmi che vivere, molto più facile bere che astenermi e digiunare o vomitare che accettarmi, tagliarmi piuttosto che affrontare i conflitti con le persone.

 

Paola M.

Raccontami un po’ della gravidanza, quali paure ti hanno accompagnato (oltre a solite da primipara)? Paure legate alla malattia, ai farmaci, ad eventuali depressioni post partum, sei stata seguita dal punto di vista psicologico?

 

Alice

Gravidanza bella dal punto di vista dell’umore, ridevo sempre. Un po’ dura fisicamente, per non fumare mangiavo come un maiale a tutte le ore, ho preso 30 chili e dormivo pochissimo, di questo ho sofferto molto. Poi ero abituata ad assumere una sessantina di gocce di Valium a sera, sicuramente il mio fisico ha risentito dell’astinenza. Paure credo di averne avuto meno delle normali primipare, perché appena avevo il timore di non portare a termine la gravidanza e di perdere mia figlia, facevo presto a spazzarle via, pensavo: se la perdo mi ammazzo, così non dovrò piangere e disperarmi, muoio, tanto che mi frega?

Nella vita ho sempre ragionato così, perché non avevo niente (a parer mio) da perdere. Ora ho tutto da perdere. Ada mi ha sconvolto il modo di affrontare le paure e di ragionare, anche il dolore (fisico) che prima sopportavo tanto bene mi è diventato insopportabile, FINALMENTE!

Paura del parto non ne avevo, il dolore l’ho sempre controllato perciò non mi spaventava e ammetto che non mi spaventerebbe nemmeno ora, anche se davvero la voglia di sopportarlo un’altra volta non ce l’ho.

Ecco, la paura vera l’ho avuta quando mi hanno fatto credere che potevano in qualche modo togliermi la bambina o tenermi in osservazione in quanto “ex-malata”, che poi ‘sto “ex” vuole dire che lo sei per sempre. E’ stato facile farmelo credere e incutermi questo timore, perché ero ancora fragilissima a causa dei soprusi passati: per un attimo mi son sentita impotente, debole, indifesa, è stato terribile.

Paura della depressione post partum non ne avevo, però ne avevano i miei medici, o meglio, ne era preoccupato il ginecologo mentre il mio psichiatra era certo avrei superato qualunque cosa e riteneva che io fossi meno a rischio di altre donne, proprio perché preparata ad affrontare certi sbalzi d’umore. Oggi per altro mi sento sicura perché mi sono ormai creata una bella rete fatta di tante cose importanti: il supporto familiare, amicizie sincere e specialisti preparati e rispettosi. Dopo il parto subii comunque una situazione di stress emotivo poiché sia pediatra che il ginecologo mi sconsigliarono di allattare, cosa che non mi rese l’impresa facile e che infatti fallì, aimé.

Ieri pensavo a questo: Ada mi ha sciolto il cuore, ero ancora piena di rabbia prima che nascesse, da quando è nata la rabbia se ne è andata, mi sono addolcita tantissimo, questo mi crea dei problemi quando presento il libro, perché se prima sembravo quasi distaccata nel raccontare cose tremende ora non posso far a meno di piangere e presentare un libro piangendo diventa difficile.

 

Paola M.

Non so se hai pianto Alice, parlandone con me, ci ha diviso un monitor e un’altra rete che è la nostra rete, che è internet che ci ha fatto incontrare, che mi ha fatto entrare nella tua vita in punta di piedi, che mi fa ridere ogni giorno mentre chiacchieriamo delle tue comparsate televisive, che mi fa commuovere quando racconti di Ada.

Siamo madri anche noi, sbaglieremo anche noi come ha sbagliato tua madre, ma sapremo lottare come ha fatto lei, tu ci stai riuscendo alla grande. Io spero che la tua storia, raccontata qui, rappresenti un segnale di speranza, di rinascita, di rivincita.
Lunga vita a noi!
Grazie.

 

Alice

Paola, ma sbaglierò pure io! Però è un viaggio splendido e farlo con voi è davvero un aiuto enorme e magari insieme sbaglieremo un po’ meno o sbaglieremo di più ma non da sole.

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